lunedì 5 marzo 2018

Visions, di Clive Barker: carceri, complotti e leggende metropolitane


Quinto e penultimo volume dei “Libri di Sangue”.
Stavo riflettendo sulle precedenti (ri)letture barkeriane e ho concluso che Barker mescola tre diverse tecniche, in quello che scrive.
In primo luogo, Barker è ovviamente uno scrittore ricercato, senza timore di usare a fondo il dizionario
Quest'aspetto, penalizzato dalle vecchie traduzioni, risalta nelle descrizioni e nella generale atmosfera raffinata dei suoi racconti, quand'anche abbondano budella strappate e morti violente. “Testacruda Rex” è un ottimo esempio.
In secondo luogo, Barker è generalmente disinteressato alle metafore spicce, ai simbolismi insistititi, al racconto come messaggio, che sia morale, politico, intellettuale e così via. Quanto ricerca e ama è il potere dell'immaginazione, che gli permette nel contesto delle sue opere un gusto per lo strano e il bizzarro senza giustificazione alcuna. 
Si può criticare quest'elemento come cattiva scrittura e teoricamente sono d'accordo nelle critiche di S. T. Joshi.
In terzo luogo, Barker è un autore romantico e come tale commenta e guarda da dietro le quinte, nelle vesti del demiurgo onnisciente le vicende dei suoi meschini protagonisti. 
I personaggi delle sue storie inoltre agiscono a loro volta guidati da un sacro fervore; quando il soprannaturale si manifesta raramente si scivola nel volgare o nella narrativa per ragazzi, dove il virile protagonista “accetta” l'orrore con motosega e fucile a canne mozze. L'incontro con il soprannaturale genera piuttosto una trasformazione, con punti di contatto nell'estasi religiosa.
E tuttavia lo stile di Barker non scivola mai nella volgarità, sebbene concedendo tutte le scene di sesso e di gore che si potrebbe aspettare dalle sinossi. Pur con il sacro fervore e il romanticismo innegabile dell'autore, c'è un certo distacco, un'ironia, un humor asciutto e tagliente.
Una strana combinazione.

Il quarto e il quinto volume nelle diverse edizioni italiane degli anni '90 e inizio '2000, vanno considerate con attenzione, perchè nel tentativo di fare ammenda sui titoli inventati nelle edizioni precedenti, come “Sudario” e “Creature”, si scelse di chiamare il quarto volume “Libro di Sangue” e questa quinta raccolta antologica “Libro di Sangue 2”, mentre in realtà sarebbe il “Libro di Sangue 5”, nell'edizione anglosassone...

Il Proibito

La novella alla base del film “Candyman” del regista Bernard Ross, col terribile (in senso buono) Tony Todd e le divine musiche di Philip Glass.
Una studentessa di filosofia e antropologia, Helen, sta scrivendo una tesi intitolata “Graffiti: la semiotica della disperazione urbana”, investigando un quartiere popolare. Tra i tanti condomini scopre un complesso edilizio per metà abbandonato, dove uno degli appartamenti svela una complessità di disegni e graffiti rara a vedersi. Helen in particolare rimane affascinata da un graffito particolarmente disturbante, che non può smettere di fotografare:
Anche qui i pittori avevano lavorato, producendo un'immagine che non somigliava a nulla che lei avesse visto altrove. Usando come bocca la porta al centro del muro, l'artista aveva dipinto con lo spray un'enorme testa sulla parete priva d'intonaco. L'opera era stata realizzata più abilmente della maggior parte di quelle che lei aveva visto prima, con numerosi dettagli che conferivano all'immagine un realismo sconvolgente. Gli zigomi sporgevano da una pelle di colore bianco-giallognolo; i denti, aguzzi con punte irregolari, convergevano tutti sulla porta. Gli occhi del modello, a causa del soffitto basso, erano piazzati appena pochi centimetri sopra il labbro superiore, ma questa strana collocazione aveva l'effetto di conferire maggior forza all'immagine. In prospettiva, sembrava che il soggetto avesse spinto la testa indietro. Capelli con nodi partivano dalla testa e strisciavano come serpenti lungo il soffitto.

Helen comincia a conoscere i “nativi” del luogo e scopre come i graffiti siano legati a una leggenda metropolitana, il “Candyman”. La zona è da tempo flagellata da strane sparizioni e mutilazioni sanguinose, ma l'assassino gode dell'omertà dei locali. Helen comincia a interessarsi della faccenda, ma a sua insaputa, anche il Candyman si sta interessando a lei...


La storia di Barker si sviluppa su piani contrapposti, su linee di pensiero e d'azione divergenti: Helen, donna emancipata, borghese, nubile, studentessa intrisa di studi accademici, contrapposta a Anne-Marie, donna dei sobborghi, povera, madre, dai modi di fare e il lessico disperatamente rozzo. 
Helen come esploratrice di un mondo sconosciuto, ovvero la periferia, armata di treppiede e macchina fotografica, a suo (dis)agio nonostante la formazione da antropologa, senza un reale contatto con i ragazzi e le madri dei condomini, ciascuno alieno e inconoscibile.
Helen come rappresentante, nelle vesti di una studentessa dell'università, del mondo della scienza, contrapposto alla creatura chiamata “Candyman”, un mostro che si alimenta del mito e delle chiacchiere superstiziose, che vive e agisce proprio in virtù di quanto il popolino crede.

“Il Proibito” in tal senso funziona perfettamente come metafora dei pericoli della fama, come un avvertimento nei confronti di chi ricerca popolarità e successo tra i propri pari. Anne-Marie diventa per la prima volta felice, famosa e soddisfatta proprio quando paradossalmente il suo figlioletto viene rapito dal Candyman e dunque riceve l'affetto e la comprensione dell'intero quartiere. Grazie al morboso meccanismo del Candyman, un mostro che si alimenta delle credenze altrui, la sua fama di riconoscimento viene soddisfatta proprio nell'altrimenti terribile momento del funerale.


Sotto questo punto di vista, “Il Proibito” è una storia molto più sofisticata del suo adattamento filmico, anche se nel suo svolgimento e in diversi suoi punti spesso annoia il lettore. La costruzione dell'atmosfera e il messaggio alla base, tutto fuorché banale, arriva a destinazione, ma sotto il profilo dell'intrattenimento il film “Candyman”, benché ridotto a slasher, possiede un mostro e un finale decisamente più incisivi.

La Madonna

Jerry Coloqhoun è un agente immobiliare sull'orlo del fallimento, quando uno dei suoi contatti, Garvey, accetta di compiere un giro dentro uno degli edifici che Jerry sta disperatamente tentando di vendere. Si tratta di un'antica piscina comunale, costruita negli anni '20 e in seguito abbandonata a muffa e umidità: una lussuoso benché decadente costruzione in stile art decò con affreschi e mosaici.
Se Jerry ha l'indole del truffatore, il suo contatto, Garvey, è un boss della mafia da tempo riciclatosi come onesto imprenditore. Man mano che i due procedono nell'esplorazione della piscina, costruita con un dedalo di corridoi a spirale, il caldo aumenta terribilmente fino a quando Jerry scopre che non sono soli: qualcosa, un'entità innominabile e chtuliana, giace nell'acqua melmosa della piscina principale...

“La Madonna” ha un interessante incipit, dove Barker descrive, mentre i due protagonisti si addentrano nel complesso, le piscine e l'avanzato stato di decadenza del luogo. Un indefinibile “qualcosa” si aggira nei corridoi, giocando un mortale nascondino con gli intrusi, mentre la temperatura sale fino a una torrenziale umidità corrispondente al cuore pulsante della piscina.
In seguito, sia Jerry che Garvey tornano a casa, mutati senza saperlo nel profondo e avvinti dal desiderio di tornare in quell'edificio altrimenti abbandonato.

Lo svolgimento de “La Madonna” funziona, fino a quando il lettore non si rende conto di come Barker non sia minimamente interessato a spiegare alcunché, ne a fornire un finale chiarificatore.
Il fascino del racconto risiede nel mistero dello stesso, ma la mancata risoluzione lascia frustrati.

I figli di Babele

L'auto di Vanessa, una turista in viaggio in Grecia, si rompe nel mezzo del nulla: in cerca di aiuto, la donna scopre nella vicina foresta un monastero sotto sequestro da un gruppo di militari. Tenuta prigioniera, Vanessa viene messa a conoscenza dei bizzarri abitanti del luogo: un gruppo di anziani scienziati e psicologi incaricati di governare il mondo. Da quella nascosta enclave il gruppo è in contatto con i principali governi mondiali, a cui trasmette istruzioni su come comportarsi e cosa fare. Ma quale linea di pensiero seguono questi uomini? Quali studi, quali analisi?
La risposta che trova Vanessa è più terrificante di qualsiasi complotto...

La premessa alla base de “I figli di Babele” è degna dei complottismi alla Alex Jones: un Ordine Mondiale gestito da una piccola base nel Mediterraneo, dove un gruppo di vecchi, sotto la sorveglianza di un esercito internazionale, gestiscono le politiche del globo. 
Quali stati abbattere, quali innalzare, quali crisi economiche causare...
Eppure, Barker sceglie con anticipo sui tempi e sulle manie del 21' secolo, una risoluzione estremamente sarcastica della storia, talmente cinica da sfociare nel nichilismo. Il gruppo di “genii” infatti dopo decenni ha abbandonato ogni parvenza di razionalità e quanto decidono nei confronti del mondo è frutto del puro caso, un risultato della demenza senile e della disperazione. Gli stessi politici che richiedono ai “figli di Babele” cosa fare, come agire, non vogliono alcun potere decisionale, non sono asserviti: la responsabilità spetta tutta all'Ordine Mondiale di questi ottantenni disillusi. 
La rivelazione finale, sebbene slegata dall'horror delle precedenti raccolte, completa il quadro desolante.

Nella carne

Un criminale chiamato Cleve, habitué del carcere e piccolo spacciatore, scopre di avere come compagno di cella un giovane scheletrico, Tait, che ha commesso un crimine proprio per finire in galera e più precisamente in quell'edificio, in quell'ala del penitenziario. Decenni prima infatti suo nonno aveva commesso degli omicidi ed era stato seppellito nel cortile. Tait è convinto di possedere facoltà paranormali trasmessagli dal parente, in grado di reincarnarsi nel suo corpo. Cleve reputa Tait un po' tocco, ma una notte sogna un luogo chiamato il “Purgatorio degli Assassini” dove incontra lo stesso Tait e ancor peggio, il suo terribile nonno...

“Nella carne” è decisamente un piccolo capolavoro weird, altamente originale. 
Barker intesse una storia di magia ad alto contenuto onirico, che preavverte i suoi lavori successivi, tra cui lo stesso “Abarat”. Il gancio della storia, ovvero l'idea che Tait sia stato convocato in quel carcere da suo nonno, desideroso di tornare sulla Terra, è già intrigante, ma viene da Barker migliorata con le incursioni oniriche di Cleve nel “Purgatorio”, una sorta di diabolico aldilà riservato a chi ha commesso un delitto. Il luogo contiene alcune descrizioni spettrali, ormai in un campo al di fuori dell'horror o del fantasy, che ricorda vagamente alcuni dei racconti onirici di HP Lovecraft:
Poi, mentre osservava le dune e il cielo, ipnotizzato dal loro vuoto, udì un suono e guardò da sopra la spalla. Vide un uomo sorridente, vestito in quello che doveva essere il suo abito della festa, venire verso di lui dalla città. Impugnava un coltello insanguinato; il sangue sulle sue mani e sul petto della sua camicia era ancora fresco. Anche nell'immunità del suo stato di sogno, Cleve fu intimorito da quella visione e fece un passo indietro, con una parola di difesa sulle labbra. L'uomo sorridente sembrò non vederlo; passò oltre Cleve e poi nel deserto, lasciando cadere il coltello mentre attraversava un qualche confine invisibile. Ora Cleve poté vedere che altri avevano fatto la stessa cosa, e che il limite della città era costellato di ricordi letali - coltelli, corde (perfino una mano d'uomo troncata al polso) - per la maggior parte semisepolti nella sabbia.

Il “Purgatorio” segue le sue regole bizzarre e contiene un “bug” di sistema che permette alle anime degli assassini di ritornare sulla Terra. Specie considerando quanto sia difficile reperire il libro, al di fuori delle edizioni scannerizzate su Internet, ho pensato di citare almeno una delle reincarnazioni, perchè dimostra l'abilità parolaia di Barker, insuperabile:
La parole andavano e venivano, ma deve quasi non le udiva. La sua attenzione era rivolta alla cortina d'ombra e alla figura - tracciata dalla tenebra - che si muoveva nelle sue pieghe. Non era un'illusione. Lì c'era un uomo, o meglio, la copia grezza di un uomo, dalla consistenza tenue, dai contorni che si deterioravano di continuo, e venivano riportati a una sembianza d'umanità solo per effetto di un grandissimo sforzo. Cleve vedeva poco delle fattezze del visitatore, ma quanto bastava per afferrare le deformità esibite come virtù: un volto simile a un piatto di frutti marciti, polposi e parzialmente sbucciati, rigonfi qua e là di un nugolo di mosche che poi si staccava scoprendo un nucleo interno pestilenziale. Come poteva, il ragazzo, conversare con tanta disinvoltura con quella cosa? Eppure, malgrado la putrescenza, c'era una torva dignità nel portamento della figura, nell'angoscia dei suoi occhi, nella O senza denti delle sue fauci.


La raffigurazione del carcere è improbabile, con i suoi prigionieri che dialogano come scolarette di un istituto cattolico, ma la concezione di questo mondo onirico, per quanto imperfetta, è troppo geniale per non definire il racconto come un gioiellino di questo quinto (e penultimo) “Libro di Sangue”.
  

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