lunedì 6 novembre 2017

Stephen King secondo S. T. Joshi: uno scrittore mediocre e parolaio


Stephen King. Il Re dell'Orrore. In vertice alle classifiche. In vendita, ovunque.
Nelle librerie da discount, così come nelle bibliotechine per intenditori.
Sugli scaffali dei supermercati, così come accatastato sulle bancarelle della domenica.
Gettato nei reparti libri dei grandi centri commerciali; in agguato sulle scansie della libreria dei parenti; presente persino in campagna, in oratorio, a scuola. 
Le biblioteche popolari? 
Strapiene, scaffale dopo scaffale.

Negli ultimi anni, specie dall'uscita del nuovo “IT”, Stephen King è tornato alla ribalta.
Difficile immaginare un periodo di assenza, per il Re dell'Orrore: ogni anno, ogni mese è una presenza fissa in libreria. 
Difficile immaginare di passare più di due anni in un negozio di libri senza dover riempire lo scaffale della nuova uscita, la nuova ristampa, la nuova antologia di racconti. 
It's everywhere, come una piaga. A partire dagli anni '2000 Stephen King ha diminuito il gettito di libri, così come la devastazione cartacea della foresta amazzonica causata dalla sua grafomania – ma anche così i libri si sono succeduti implacabili, l'uno dopo l'altro.
Bombardamento di un'artiglieria borghese e parolaia.

Siamo ovviamente grati a King.
Immensamente, irrimediabilmente grati.
La gratitudine di chiunque sia un sincero ammiratore del fantasy e dell'horror non può non riconoscere a King di aver trasformato un genere di nicchia in una realtà bene affermata.
Forse non tanto in Italia, dove il panorama di lettori horror è sconfortante, per quanto siamo una sparuta (e incompresa) minoranza, ma nel mondo anglo-americano l'horror con King è divenuto un genere di massa, tanto nei romanzi quanto nei film.
E laddove il mercato si allarga, aumentano le piccole case editrici, gli autopubblicati, gli spazi per un horror diverso e interessante: King ha fatto breccia per tanti altri autori, diversissimi nello stile e nei contenuti, ma accomunati dalla possibilità di guadagnarsi uno stipendio scrivendo horror.
In questo, King ha avuto un ruoloeducativo” eccellente.

E tuttavia, c'è una soglia superata la quale l'educazione diventa pedagogismo fine a sé stesso, la ripetizione rincoglionisce invece che aiutare la memoria e il mercato invece che assorbire i nuovi generi pretende quel tipo di horror – l'horror kinghiano, con tutti i suoi difetti.
La nuova ondata di adattamenti di Stephen King al cinema e alla tv ha superato da tempo qualsiasi utilità “didattica”: nessun nuovo lettore dopo aver visto “IT”, si avvicinerà all'horror di Ligotti, di Lovecraft, di Barker. Si limiterà a King e solo a King e se anche volesse provare qualcosa di nuovo non ne avrebbe in libreria i mezzi: il genere horror è infatti ormai assimilato dal fantasy e dalla fantascienza. Roba di genere, un tutt'uno.
La scelta di riprende altre produzioni di King, di adattare altre delle sue storie al grande schermo toglie ormai nel 2017 linfa vitale agli altri autori horror: il vecchio Lovecraft, prima di tutto; il nuovo Hellraiser; Ramsey Campbell; l'intero sottogenere weird.
A differenza che negli anni '70/'80 abbiamo oggigiorno i mezzi tecnici, social(i) e la libertà di andare al di là dell'horror di Stephen King, di provare qualcosa di nuovo.
Sia con le serie tv che in misura minore con i film, il pubblico è ormai pronto a nuovi sapori, nuove pietanze. Un high budget movie basato sulle Montagne della Follia, per citare il progetto scomparso di Del Toro, non rappresenterebbe più come trent'anni fa un rischio inaccettabile.
E invece no, andiamo sul sicuro, sul melenso.
Adattiamo La Torre Nera di King.
Adattiamo Il gioco di Gerald.
Adattiamo 1922.
Adattiamo...


Mentre negli anni Ottanta i critici letterari, pur nella loro cecità verso il “genere”, provenivano da un background di studi classici e inseguivano obiettivialti”, a partire dalla fine degli anni Novanta la direzione degli studi universitari si è indirizzata alla ricerca del “bizzarro”, della svolta coraggiosa, del “sociale” nei generi più bistrattati. Lentamente, dal disprezzo motivato verso King, si è passati a trasformarlo ideologicamente: un nuovo “Dickens”, un autore “popolare”, addirittura “proletario”, con tanto di studi sullo stile e sui significati nascosti.
Almeno nel pregiudizio dei “vecchi” accademici del secondo dopoguerra c'era un ampio insieme di motivazioni letterarie, supportate dalla sincerità di fondo di chi davvero disprezza King.
Al contrario, dal 1990 gli studi nell'ambito sono auto-referenziali.
E' il titolo a contare; è l'idea di fondo; è l'immagine che si vuole trasmettere.
Importa poco che le fonti, le biografie e i contenuti non si allineino minimamente alla Tesi proposta. Importa poco che siano studi basati sul cherry picking, sulla sicumera, sul citare quanto fa comodo e nient'altro.

Ma Stephen King è davvero un grande autore?
E' davvero questo genio dell'horror millantato da ormai mezzo secolo?
Proviamo a darne un'analisi oggettiva, coll'aiuto di un critico coi controcazzi come S. T. Joshi nel saggio di inizio '2000, “The Evolution of the Weird Tale”.

Ho letto interamente Stephen King dalla biblioteca popolare a Trieste tra secondo e quarto anno delle Superiori. All'epoca riuscii a leggere “Carrie” (1974), “Le notti di Salem” (1979), “Shining” (1977), “L'Ombra dello Scorpione” (1983), “La zona morta” (1981), “Christine” (1984), “Pet Sematary” (1985), “Il Talismano” (1986), “It” (1987), “Misery” (1988), “La metà oscura” (1990), “Il gioco di Gerald” (1993), “Mucchio d'ossa” (1999) e negli ultimi anni “Duma Key” (2008).
Ho ricordi piuttosto altalenanti delle antologie, di cui ovviamente ci si ricorda più dei singoli racconti che del titolo d'insieme: sicuramente “Scheletri” (1990) e “Quattro dopo mezzanotte” (1993); forse anche “Incubi&deliri” (2000). 
“Danse Macabre”, uno dei miei primi “saggi” di genere e “On Writing”, che uso tutt'ora. E' un buon manuale, specie per levarsi di testa certe romanticherie.
A questo va aggiunta la serie della Torre Nera – un'intera scansia della biblioteca! - e i romanzi scritti sotto pseudonimo, anche se nell'edizione proposta erano già titolati come Stephen King: “La lunga marcia” (1985) e “L'uomo in fuga” (1984).
Come con le illustrazioni interne della saga di Narnia, tendo a ricordare con maggiore affetto le copertine che il loro contenuto: un dato che fa già riflettere. Ad esempio, ricordo poco della Carrie “cartacea”. Ci sono alcune mancanze – non ho idea se King muti radicalmente lo stile a partire dal '2000 e non ho letto alcuni classici importanti: “Dolores Claiborne”, “Cujo” e “Il Miglio Verde”.


Un primo elemento a cui attribuire il successo di King è l'adattamento cinematografico.
Stephen King viene trasposto al cinema fin dagli esordi, con Carrie e Shining.
Non vi sono ritrosie o tentennamenti in Stephen King: ogni volta che gli si propone di trarre “qualcosa” dalle sue opere acconsente, con la più totale indifferenza verso il regista, il budget e i cambiamenti all'originale. Solo così ci si può spiegare l'estremo alternarsi di capolavori come il film di Kubrick a epiche trashosità come la saga dei Children of the Corn. Evidente a questo proposito come King non comprenda il cinema: altrimenti non avrebbe criticato un capolavoro come Shining, nel frattempo innalzando lodi all'immondo remake.
Il cinema ama King, King non ama il cinema.
Senza dubbio King, a differenza invece di Clive Barker, non sa pensare per immagini, come comprovano i suoi disastrosi tentativi cinematografici, redenti solo all'ultimo dall'amico Romero. I diversi registi in sostanza prendono dall'opera di King un'idea di base, un'intuizione sfolgorante: il prodotto finale ha tuttavia (quasi) nulla in comune con l'originale. In effetti, risulta essere un capolavoro quanto più si allontana dalla matrice letteraria.
Si realizza a questo proposito un'incomprensione, perchè King riceve per riflesso, grazie al nome appioppato sulle locandine, meriti che non possiede. Se Shining è un capolavoro, lo è solo grazie al genio di Kubrick. King fornisce qualche idea, un accenno di caratterizzazione, ma il suo contributo si blocca alla fase iniziale. Quando invece il Re dell'Orrore scrive una sceneggiatura, questa può funzionare soltanto se adattata a un clima comico-demenziale-nostalgico, altrimenti diventa involontariamente grottesca. Le storie dell'antologiaCreepshow” funzionano perchè non si prendono sul serio, perchè contestualizzate nella nostalgia verso gli anni '50 e l'horror alla Hammer del periodo. Solo in tal senso, dentro un horror che non è più horror, il King cinematografico “funziona”. Altrimenti, in tutti gli altri casi, il successo del film ha permesso a King di “rubare” meriti in realtà solo e soltanto del regista, vivendo così di luce riflessa.

Cosa sappiamo di Stephen King?
Cosa sappiamo delle sue reali ambizioni letterarie?
Certo, dall'alba dei social è molto attivo su Twitter e nelle ultime opere sembra aver cambiato argomenti e stile letterario. Tuttavia dovremmo ammettere che non conosciamo la “persona” King: conosciamo il “brand” Stephen King. Sappiamo cosa aspettarci dalla Coca Cola, dalla Disney, dalla McDonald... e allo stesso tempo sappiamo cosa aspettarci da Stephen King. E' una firma, un marchio di fabbrica, associato a un genere dell'horror e una data immagine, ormai invecchiata.
Stephen King ha beneficiato fin dagli anni '70 dalla tendenza degli editori a scegliere un ristretto gruppo di autori su cui puntare tutte le loro carte, tramite massicce campagne pubblicitarie, conferenze e incontri, episodi “eclatanti” e/o scoop. Solo una persona estremamente ingenua potrebbe pensare che il successo di King tra gli anni '70 e '80 fosse dovuto solo all'inventiva e all'onestà dell'autore: King è stato spinto, promosso e pubblicizzato dalle case editrici. Ovviamente, se King fosse stato un incompetente, qual'è il caso con gli autori italiani “pompati”, non avrebbe sbancato il botteghino. C'è qualità in King, c'è perseveranza.
L'obiettivo inseguito dagli editori e da King stesso di trasformarsi da scrittore in “brand” non sarebbe stato possibile senza una continua pubblicazione. Prima di esordire, King pubblicava già a nastro, senza interruzione, sia su giornali specializzati come Startling Mystery Stories, che su giornali mainstream, come Playboy, Cavalier, Penthouse. E' una sequela di racconti sfornati senza pause, un'autentica catena di montaggio. Dalla pubblicazione di “Carrie”, King aumenta il ritmo: un romanzo all'anno, praticamente senza pause fino al tardo 1990.
Il gioco editoriale è anche un gioco d'attrito, che King ha vinto, a prezzo di diventare sempre più noioso, sempre più logorroico. In seguito a “Carrie” e “Shining”, diventa evidente nella prima metà degli anni '80 come le idee horror scarseggino: “Cujo” parte da un concetto di base adatto più a un racconto che a un romanzo, tenta di metterci dentro elementi soprannaturali, ci infila jump scares “tanto per”; “Silver Bullet” riprende il tema del lupo mannaro senza rinnovarlo in alcun modo e “Talismano” è una collaborazione fallita, dove lo stile raffinato di Straub è annegato nel mare di parole comuni e mediocrità di King. Ma il Re dell'Orrore continua a scrivere, continua a pubblicare e in questo modo la “firma” King si auto-sostenta, magari si rilancia con l'occasionale trasposizione, mantenendosi sempre sulla cresta dell'onda senza annegare nell'anonimato.

Prima edizione paperback, si veda Too Much Horror
Un altro elemento che ha reso popolare King negli anni Ottanta è la nostalgia.
I romanzi di King, nonostante la categoria dell'horror, sono storie intrise di rimpianto, di nostalgia verso un tempo scomparso. La golden age dell'infanzia, il turbinio avventuroso dell'adolescenza. Il rimpianto per le villette a schiera, la frontiera del West e la tranquilla vita della famigliola borghese tra lavoro e figli. C'è sufficiente nostalgia da filare dal dentista con più carie che denti, strangolati da quell'identica melassa buonista che rende la visione dei film di Wes Anderson insopportabili, un esercizio di masturbatorio auto compiacimento.
Stephen King infatti odia studiare.
Stephen King in effetti odia le istituzioni educative e in senso lato, odia doversi documentare.
In quest'ignoranza, è un americano vero. Doversi documentare per una storia, che sia un racconto o un romanzo, richiede tempo. E' necessario svolgere un lavoro di ricerca in biblioteca, nell'era pre Internet; leggere e/o studiare un saggio occupa almeno qualche giorno. Nella mente di Stephen King, questa è un'eresia, perchè il tempo speso nella documentazione è tempo rubato alla scrittura. E bisogna scrivere: in continuazione, tanto e male. Uno scrittore che non insulta l'intelligenza dei suoi lettori e sceglie di svolgere qualche ricerca ad hoc non avrà il tempo materiale di mettersi al tavolo a vergare ogni giorno le famose “tremila parole”.
Il lavoro di documentazione, assente (quasi) sempre, costringe King ad attingere dall'horror più banale e comune: la sua cultura è infatti una miscellanea di cultura pop degli anni '50 e '60. I fumetti dell'epoca – “Creepshow”, appunto – i film horrorclassici” di quei decenni, gli shlock del cinema all'aperto, il romanticismo e l'idealizzazione del secondo dopoguerra. 
La genialità di King sta nel prendere questi “classici”, come il vampiro, il mannaro, il clown, il mostro “generico” e trasporli nell'ambientazione contemporanea – solitamente i suburbs della borghesia reaganiana. King si limita casomai ad aumentarne il numero, come con i vampiri delle Notti di Salem o a mostrarne la violenza, ma non c'è alcuna novità: è il solito stereotipo ripetuto ad oltranza. 
Come George Lucas, Stephen King rielabora un'adolescenza nerd di fumetti, pulp e romanzi d'avventura. Se il primo Star Wars (1977) centrifuga senza particolari guizzi d'inventiva la fantascienza di Buck Rogers degli anni '30 e '40, Stephen King si limita rielaborare l'horror della Hammer inserendolo in un'ambientazione contemporanea. Wow, sai che novità! Quanto meno con Lucas c'è uno studio accurato del romanzo cavalleresco, dei canoni classici della crescita e della maturazione dell'eroe, un tentativo riuscito di mescolare pulp a studi di antropologia gonzo, senza prendersi troppo sul serio. In tal senso, Lucas crea qualcosa di nuovo. King invece è un fallimento, dove la reale rivoluzione nel genere – ammesso che ci sia – andrebbe riconosciuta ai registi, non agli scrittori. Come attualmente si cita e si rielabora la cultura degli anni Ottanta, in quegli anni si citava e rielaborava la cultura degli anni Cinquanta. Ovviamente, dall'attuale rielaborazione di una rielaborazione non può non uscire che merda, ma di questo abbiamo già discusso.

Se anche si vuole creditare King con quest'innovazione – una trasposizione dell'horror nel contemporaneo in realtà già presente con Richard Matheson, Ray Bradbury e Shirley Jackson – non si può negare il suo stile di scrittura sciatto e impersonale.
Con la notevole eccezione dei romanzi scritti sotto pseudonimo, Stephen King scrive con insopportabile pesantezza: ogni singola scena viene descritta con esaurimento di dettagli del tutto superflui, inseguendo fino all'ultimo le trame e gli obiettivi mondani dei diversi protagonisti. 
Lo stile di King suona familiare al lettore solo a causa del suo utilizzo indiscriminato di loghi, marchi e brand degli anni '80 e '90: invece di una lattina di bibita gassata, possiamo leggere della “Pepsi” o della “Coca Cola Light” o invece del pollo, i “Kentucky Fried Chicken”. Quando si tratta di descrivere mobili, case, oggetti, giornali, ecc ecc King preferisce usare i nomi propri, generando nel lettore un immediato riconoscimento.
“Ehi, man! E' come me! Scrive di cose che mangio/bevo/consumo/guido!”

Oltre a essere una procedura volgare, non dissimile dalla pubblicità nei film, è uno stile che invecchia facilmente: sfido le generazioni tra venti, trent'anni a sapore cos'è un cordless, o nel campo dei giornali, la pornografia dell'Hustler. Siamo lontani dal citazionismo di Moore, perchè non c'è alcun tentativo da parte di King di elevare il discorso o di collocarlo storicamente: si vuole solo immergere il lettore nella storia con le tecniche più ovvie immaginabili.

Mentre scrittori come Lovecraft, Campbell e Ligotti ricercano una coerenza interna all'incursione del soprannaturale che descrivono nelle rispettive storie, Stephen King semplicemente si limita a eseguire un copia-incolla da un manuale di mostri di D&d. Non si motiva mai il “perchè” dell'horror in King: per quale motivo Christine è una macchina infernale? E' in realtà un alieno? Il costruttore ha stretto un patto demoniaco? Fornire una spiegazione obbligherebbe King a seguire delle regole, a dare una struttura coerente al romanzo. Un obiettivo chiaramente impossibile, come prova ad esempio il non sense delle “Notti di Salem”, che si limita a moltiplicare il numero di vampiri, descrivendoli nel frattempo tali e quali il Dracula di Stoker, di cent'anni prima, con tanto di protagonista che sceglie di confessarsi prima di affrontare lo scontro finale. Quest'incursione dell'horror senza giustificazioni, senza documentazione e senza motivo appare endemica nei racconti, che forzati dalla struttura breve, falliscono nel nascondere nei fiumi di parole e divagazioni la completa assenza di idee o semplici cause-effetto.
I mostri, le maledizioni... compaiono dal nulla, spesso, come in Christine, il protagonista stesso s'interroga in una -meta riflessione sulla causa dell'elemento soprannaturale. “Pet Sematary” (1983) è un altro esempio: perchè, perchè un cimitero su terra indiana ha la capacità di far risuscitare gli animali morti? Qual'è la spiegazione? “E' indiana, duh!”.

Il passaggio dalla mostrologia all'orrore dei poteri della mente (“Carrie”, “Shining”, “Firestarter”, ecc ecc) non introduce elementi nuovi: Carrie ha il potere della telecinesi per una improbabile derivazione genetica, ma King non si addentra nelle pseudo motivazioni; Danny ha il potere di leggere nella mente e di vedere (fosco) nel futuro, ma i paradossi generati dallo “shine” non vengono spiegati da King, che si limita a impantanarsi nei buchi di sceneggiatura.

Un'osservazione di S. T. Joshi è particolarmente calzante: a inizio del romanzo, Danny legge i pensieri di una signora. La scena ha lo scopo di dimostrare il suo potere e allo stesso tempo è una maniera di King di titillare il suo borghese lettore, con il proibito accenno del “sesso”.

E in uno di quei lampi che di tanto in tanto lo illuminavano, Danny captò per intero il pensiero della donna: un pensiero che galleggiava sul brusio sordo e confuso di emozioni e colori che di solito gli giungeva nei luoghi affollati. (mi piacerebbe proprio entrargli nelle brache) Danny aggrottò la fronte mentre guardava i fattorini che sistemavano le valigie nel bagagliaio. La signora Brant fissava con espressione corrucciata l'uomo in uniforme grigia che sovrintendeva all'operazione di carico. Perché mai voleva entrargli nelle brache? Che avesse freddo, nonostante la lunga pelliccia? Ma se davvero aveva così freddo, perché non si era infilata un paio di calzoni suoi? La sua mamma portava i calzoni per quasi tutto l'inverno.

Il passaggio è certo efficace, ma al di là della scelta di tradurre col medievale “brache”, non si capisce per quale motivo Danny legga nel pensiero parole e non immagini. E' chiaro come King non abbia minimamente riflettuto sui (confusi) poteri che ha conferito a Danny: il bambino legge letteralmente nel pensiero, come se il nostro cervello fosse un libro di carta da sfogliare. Oppure, davvero “vede” nel futuro e nella mente? E' una situazione confusa, ma a King non importa...

Edizione francese divisa in tre parti!
Il successo di “It” deriva dall'idea di popolarizzare la figura del clown assassino.
Ci si può lodare&sbrodolare con complessi ragionamenti sui profondi significati filosofi del romanzo e dei due film (su cui non mi esprimo, perchè non sono un esperto di cinema), ma in realtà il successo commerciale derivava dall'idea del clown serial killer.
Iniziamo dal titolo: “It”, come osserva S. T. Joshi, non è un nome affatto originale, considerando come King avesse sicuramente letto “It!” di Theodore Sturgeon.
“It” è un'abbuffata kinghiana, un diluvio di parole.
Qualunque impatto potesse avere il mostro, “It” viene diluito fino a scomparire in una melma di descrizioni, azioni quotidiane e piccoli drammi borghesi. Ci vogliono 700 pagine (!) prima di scoprire qualcosa su “It”, ovvero che è un “manitou”, uno “Shapeshifter”. Settecento pagine d'inesausto rompimento di gonadi, tra bulli e adolescenti, tra meschini fatti sentimentali e azioni quotidiane. 
Se la prima parte del romanzo dedicata ai ragazzi è sopportabile, la seconda parte con gli “adulti” è la noia personificata. Pagine su pagine, capitoli su capitoli incentrati su mondani dettagli che non hanno alcun peso nella storia: come critica S. T. Joshi, King ha ormai maturato con questo romanzo un amore per la propria voce, per sentirsi parlare letteralmente nauseante.
Aver definito “It” come un alieno pone il problema non indifferente di come eliminarlo, quest'essere soprannaturale e in apparenza eterno: se è immortale, cosa può fare un piccolo gruppo di eroi borghesi? Peter Straub aveva fronteggiato l'identico dilemma in “Ghost Story”. Come in Shining, come in Pet Sematary, King si limita a ignorare il problema, risolvendo il tutto nella metafisica e nella magia spicciola del “Rito di Chud”. Again, non c'è un serio tentativo di “studiare” un'idea del soprannaturale, di pensare a una soluzione razionale con quanto sappiamo di “It”: è un finale scritto a braccio, sull'onda del momento.
Cos'hanno i Perdenti di speciale per sconfiggere “It”?
Cos'hanno che non sia il sentimentalismo da quattro soldi che permea tutti i romanzi di King?
“But if this is a story, it’s not one of those classic screams by Lovecraft or Bradbury or Poe”

Già, ma questo non è un complimento, caro King...

L'Ombra dello Scorpione” prosegue la linea narrativa tracciata da “It” con un altro voluminoso tomo, stavolta abbracciando la tematica della fine dei tempi, dell'Apocalisse, se volete. La prima versione nel 1978 aveva 400 pagine tagliate; nel 1990 è stata pubblicata la “director's cut”, anche se a un confronto attento, King ha rimaneggiato l'opera con riferimenti a Bush e all'AIDS per rendere il romanzo contemporaneo alla ristampa negli anni '90. So much for integrity.
Nonostante l'agente dell'influenza colpisca globalmente, la storia rimane circoscritta agli Stati Uniti. Sappiamo che è stato colpito il mondo intero, ma who cares?
I protagonisti di King sono oltremodo stupidi. La prima cosa che fanno è radunarsi in Nebraska (!?) e firmare la Costituzione e il Bill of Rights. Come osserva S. T. Joshi, desiderano ristabilire il governo degli Stati Uniti nonostante sia stato proprio il governo a causare il disastro in primo luogo, rilasciando per errore l'arma batteriologica!

Si volse verso le macchine, ferme con il motore acceso, che mandavano nuvolette di carburantebruciato nell'aria del mattino. Mentre faceva ciò, ci fu un movimento verso le prime file della folla.All'improvviso un uomo si fece avanti. Era un uomo grosso, la faccia bianca quasi quanto il grembiule da cuoco che indossava. L'uomo nero aveva restituito il rotolo a Lloyd e le mani di Lloyd ebbero uno scatto convulso quando Whitney Horgan venne fuori. Si sentì chiaramente il rumore della carta che si strappava in due.
«Ehi, gente!»gridò Whitney.
Un mormorio confuso percorse la folla. Whitney tremava per tutto il corpo, come preso da paralisi. La sua testa continuava ad agitarsi in direzione dell'uomo nero e poi via da lui. Flagg si rivolse a Whitney con un sorriso feroce. Dorgan scattò verso il cuoco e Flagg gli fece cenno di fermarsi.
«Questo non è giusto!»gridò Whitney. «Lo sapete che non è giusto!»
Silenzio mortale della folla. Sembravano trasformati tutti in pietre tombali.La gola di Whitney si agitava in modo convulso. Il pomo di Adamo andava su e giù come una scimmia su un ramo.
«Una volta eravamo americani!» gridò alla fine. «Non è così che si comportanogli americani. Io non sono niente, ve lo dico io, sono solo un cuoco, ma so che non è così che si comportano gli americani, state a sentire un pezzo di merda assassino con gli stivali da cowboy...»

In realtà giustiziare senza legge e senza processo è un comportamento squisitamente americano.
Se c'è una caratteristica che affascina la società americana, dal Vecchio West al supereroe contemporaneo è proprio l'attività del vigilantes. Storicamente sempre pronti a lanciare una caccia alle streghe verso gli indifesi o a farsi difensori dei proprietari di schiavi, di terreni, di proprietà. Lettura selettiva della storia, King!

Randall Flagg è un cattivo che sembra uscito da un cartone animato.
King stesso lo descrive come “‘the purest evil left in the world’”. Va da sé, che una volta stabilita questa dicotomia, è sufficiente affidare agli eroi rincoglioniti della situazione il compito di uccidere lui e la sua banda e voilà, ogni problema sarà risolto.

Verso la fine del romanzo, l'esplosione di una bomba atomica avviene attraverso quanto King descrive come “La Mano di Dio”. Non è una battuta, o un'ironia dell'autore: all'interno della storia è davvero “La Mano di Dio”! Ora, non posso fare a meno di chiedermi: dove diavolo era “La Mano di Dio” quando il governo rilasciava la mortale epidemia e milioni di persone morivano?

Come “L'Ombra dello Scorpione” e “It” dimostrano a quale punto negli anni '80 King fosse narcisisticamente innamorato della propria scrittura, così “Misery” completa una lunga sequenza di personaggi di cartapesta, che non hanno altro scopo se non rappresentare sua Magnificenza King.
Bill Denbrough in “It” è semplicemente King.
Roberta Anderson in “Le creature del buio” è nient'altro che King.
Thad Beaumont? (“La metà oscura”) Ben Smears? (“Le notti di Salem”) King, always King.
“Misery” riassume e compendia quest'atteggiamento selfistico.
Robert Sheldon è una versione meno appesantita di King, uno specialista nell'Harmony romantico invece che nell'horror. Non c'è altra differenza, il protagonista è lo scrittore. Ovviamente, il sentimento dominante è il risentimento bipolare: King disprezza i critici e si vanta di vendere carrettate di libri, ma nel contempo è gonfio di gelosia perchè quello stesso establishment che disprezza non gli riconosce alcun merito letterario. Quando riflette su quello che ha scritto, Sheldon non si pente affatto, ritiene che siano romanzi commerciali, ma pur sempre buoni romanzi. Come King, fallisce nell'esprimere qualsiasi auto-critica. In effetti, l'intero romanzo è una metafora della condizione di King scrittore negli anni '80: come Sheldon è prigioniero di Anne Wilkeses, così King è prigioniero dei suoi lettori horror, che gli richiedono un nuovo romanzo ogni anno. Sheldon/King sputa nel piatto dove mangia (tutti i lettori sono come la Wilkeses? Sul serio?) e nel contempo è convinto che un suo lavoro “originale” verrebbe massacrato dai malvagi critici.


Un ultimo aspetto disturbante dei romanzi di King è la continua, ossessiva descrizione negativa dei poveri, degli umili, dei lavoratori che non rientrano nella sua amata middle class.
In misura minore, anche l'alta borghesia e l'aristocrazia incontrano il suo disprezzo, ma unicamente se si tratta di una superiorità intellettuale – è ancora una volta l'odio antiaccademico di King.

Watson (“Shining”), Gary Pervier (“Cujo”), Roland Lebay (“Christine”), Joe St. George (“Dolores Claiborne”)? Poveri e in quanto tali ignoranti, sporchi, incivili, razzisti e violenti.
Il male soprannaturale delle storie di King preferisce come veicolo per le sue azioni personaggi di bassa estrazione: tra i tanti, George Stark (“La metà oscura”) ed Henry Bowers (“It”).
Il culmine è raggiunto nella disgustosa descrizione di Randall Flagg, personaggio anti-establishment, populista e come tale pericolosissimo agli occhi di King:

Randall Flagg, l'uomo nero, marciava verso sud sulla Statale 51, tendendo l'orecchio ai rumori della notte provenienti da ambo i lati di quella stretta strada che prima o poi lo avrebbe portato fuori dall'Idaho e nel Nevada.
(...)

Marciava verso sud sulla Statale 51, i tacchi consunti degli stivaletti appuntiti da cowboy risonanti sull'asfalto; un uomo alto senza età, con un paio di jeans sbiaditi, stretti alle caviglie e una giacchetta di tela. Aveva le tasche gonfie di cinquanta diversi tipi di volantini contrastanti... manifestini per tutte le stagioni, retorica per tutte le stagioni. Quando quest'uomo distribuiva un manifestino, la gente lo prendeva, quale che ne fosse l'argomento: i pericoli delle centrali atomiche, la parte sostenuta dal cartello internazionale ebraico nel rovesciamento di governi amici, la connessione CIA-Contras-cocaina, il sindacato dei braccianti agricoli, i Testimoni di Geova (Se rispondi «» a queste dieci domande, sei SALVO!)i Neri per l'eguaglianza militante, il codice del Ku-Klux-Klan. Li aveva tutti quanti, e altri ancora. Portava un distintivo su ciascuna tasca della giacchetta di tela. A destra, una faccia gialla sorridente. A sinistra, un maiale con un berretto da poliziotto in testa, sotto cui stava scritto a semicerchio: «Come sta il tuo porco?»
(…)
Procedeva verso sud, a un certo punto della Statale 51 fra Grasmere e Riddle, più vicino al Nevada, ora. Tra poco si sarebbe accampato e avrebbe trascorso la giornata dormendo, per svegliarsi all'imbrunire. Avrebbe letto, non importava che cosa, mentre la cena cuoceva su un fuocherello da bivacco senza fumo; parole di un qualche tascabile porno, logoro e senza copertina, o magari Mein Kampf, o un fumetto di Robert Crumb, o uno dei fogli fascisti degli «America Firsters» o dei «Figli dei Patrioti». Davanti alla parola scritta, Flagg era un sostenitore delle pari opportunità.

Come si fa a mettere sullo stesso piano un sindacato di poveri braccianti e la propaganda antisemita?
Com'è possibile confondere e ritenere egualmente populiste le proteste ambientaliste e I Testimoni di Geova?
Oggigiorno vedere equiparati i “Neri per l'eguaglianza militante” con il KKK è semplicemente disgustoso. E il povero Crumb? Why? E' un artista di fumetti underground, perchè un Diavolo come Flagg dovrebbe servirsene? E' casomai l'esatto opposto dei “fogli fascisti”. E citare la pornografia per stuzzicare il lettore è una tecnica davvero d'un bassume squallido.

A King non interessa l'horror.
A King non interessa il sublime.
In effetti a King non interessa il soprannaturale tout court.
Sottoposte al microscopio, quantomeno nel filone che qui ho brevemente analizzato, le storie di King sono storie sulla famiglia. Sono storie sulla middle class raeganiana o post caduta del Muro.
L'horror per King è non è il mostro, non è il serial killer o l'animale impazzito: è la rottura dell'unità famigliare. A differenza dei maestri, come Lovecraft e Ligotti, King non prova un briciolo d'emozione nel descrivere le sue creature. Sono mezzi, “arnesi” narrativi con cui attentare ai rapporti tra padre e figlio, tra gli amici adolescenti, tra sorella e fratello, ecc ecc.
Ancor peggio, piedi di porco con cui rovinare le ambizioni di giovani scrittori protagonisti sue controfigure, salvo confortar(li)si con un finale di successo, tanto di pubblico quanto di critica.
Come avevo già scritto a proposito dello Splatterpunk, il vero orrore è ormai vedere generazioni di scrittori “mangiati” dalla concorrenza pluri decennale di King.
Mangiati da mainstream mascherato da horror.

2 commenti:

Marco Grande Arbitro ha detto...

Penso che questa sia la migliore analisi su King che abbia mai letto. Concordo sul finale. Da quel poco che ho letto, di King ho apprezzato il dramma familiare. Problemi di gente vera, in storie inventate.

Coscienza ha detto...

@Marco Grande Arbitro

Guarda, ne stavo discutendo su Facebook proprio in questo momento e altri lettori mi hanno confermato la tua stessa opinione. Immagino dipenda da quanto il lettore sia interessato a seguire il "dramma familiare", anche se non si può negare l'immedesimazione nei romanzi di King.