venerdì 14 ottobre 2016

La maschera di Musashi


Junger racconta nel suo diario come, quand'era giovane, il mondo del romanziere russo Tolstoj gli sembrasse reale quanto il nostro: negli anni vissuti nell'ozio dell'intellettuale in seguito alle ferite nella Grande Guerra, aveva acquisito quest'abitudine mentale; i personaggi, gli ambienti e i “tipi” descritti da Tolstoj gli balzavano di fronte agli occhi di continuo, confondendo reale e narrativa.

Questo bagaglio di riferimenti, di ricostruzione che oggi definiremmo “virtuale”, era possibile solo per l'ampiezza stessa dei mattoni romanzi russi: oggigiorno risulterebbe impensabile. E' interessante, a questo proposito, come sia divenuto un complimento definire un romanzo “leggero”, in allegra compagnia con aggettivi leopardiani come “vago”, “impalpabile”, “si legge velocemente”, “agile” ecc ecc La povertà, se non l'assenza, delle descrizioni nelle opere attuali impedisce di citarle, di vederle nel reale; l'operazione compiuta da Junger fallisce miseramente. Per altro, saltare le descrizioni per lasciar tutto all'immaginazione del lettore presuppone che il lettore abbia fantasia, cosa tutt'altro che scontata...

Ad ogni modo, ultimamente mi è capitato qualcosa di molto simile con un mattone romanzo giapponese, più volte letto e riletto, Musashi, di Yoshikawa. In origine pubblicato a puntate negli anni '30, è uno sterminato romanzo di 841 pagine, un feuilleton ambientato nell'era Tokugawa.
Il romanzo parte con Musashi esanime tra i cadaveri della battaglia di Sekigahara, seguendo le sue disavventure per diventare lo spadaccino oggigiorno famoso: filosofo zen, modello di autocontrollo, poeta, samurai e teorizzatore della tecnica a due spade, tutt'ora esistente nel Kendo.
La pubblicazione di Yoshikawa era destinata a un pubblico di massa, a un giornale popolare; il tono è pertanto avventuroso, ricco di coincidenze, incidenti, incontri fortuiti, storie d'amore e duelli. Se non fosse per la lunghezza, è quel genere di romanzo che consiglierei leggere quando si è adolescenti, perchè il ritmo è davvero forsennato. Musashi vagabonda qui e lì, scorrazza allegramente nell'open world del Giappone in via di transizione d'inizio Seicento. A differenza dell'osannato Shogun, di Clavell, Musashi non incontra grandi personaggi del tempo e non partecipa a grandi battaglie. Gli amici, i passanti, le persone che incontra sono il popolino, la bassa plebe: monaci, contadini, artigiani, medicanti, ronin straccioni... I singoli monaci, i contadini con cui chiacchiera Musashi hanno piena dignità, sono “veri”, nel senso che viene loro fornita una motivazione e una caratterizzazione minima: non sono meri fondali di carta per le imprese del guerriero di turno. Anzi, come nel caso seguente, è proprio parlando con queste persone che spesso Musashi arriva a importanti rivelazioni.
Ringraziatolo, Musashi si avviò. Passò oltre la cucina. Il terreno retrostante, con la sua legnaia, una rimessa e un orticello, somigliava molto al terreno che circonda una prospera fattoria. Di là dal giardino scorse la Hozoin.
C'era un vecchio che zappava l'orto. Musashi arguì che fosse un monaco della Ozoin. Stava per rivolgergli la parola, ma quello era così intento al suo lavoro che gli parve scortese disturbarlo. Passandogli accanto si accorse però che il vecchio lo fissava di sottecchi, pur seguitando a zappare.
Allora Musashi sentì una forza terrificante aggredirlo: una forza simile a un fulmine che squarcia il cielo. Non era un'impressione. Egli sentì effettivamente quel potere misterioso trafiggergli il corpo. Atterrito, diede un balzo. Avvertì una vampata di calore.
Tutto era silenzio, tranne per il rumore prodotto dalla zappa, con ritmo regolare, tranquillo. Volgendosi a guardare, e tutt'ora confuso dal potere da cui era stato colpito, Musashi si chiese: “Che sarà stato mai?”.
Era ancora perplesso, quando giunse davanti all'entrata della Hozoin. Mentre aspettava che venisse un servo, pensò: “Inshun dev'essere ancora giovane. In'ei è rimbambito e ha scordato ogni cosa, ma il suo successore...”. Non riusciva a levarsi però dalla mente l'incidente nell'orto.

Musashi si batte contro un monaco nerboruto, di scarso cervello e lo uccide sul colpo. Il vecchio dell'orto gli si avvicina per chiacchierare in apparenza del più e del meno.
– Sembri essere dotato di talento. Ma sei forte. Troppo forte!
Prendendola per una lode, Musashi arrossì.
– Oh, no. Sono ancora immaturo. Non commetto che errori.
– Non è questo che intendo. La tua forza è il tuo problema. Devi imparare a controllarla, diventando più debole.
– Cosa?! – domandò Musashi perplesso.
– Poco fa, ricordi, mi passasti accanto, nell'orto. E, quando mi vedesti, desti un balzo, vero?
– Sì.
– Perchè, quel salto?
– Ecco, immaginai che tu potessi usar la zappa come un'arma contro di me, per colpirmi alle gambe. Mi sentii come trafitto dai tuoi occhi, sebbene tu guardassi in terra. Sentii qualcosa di micidiale, nel tuo sguardo. Come se tu cercassi il mio punto debole – per portar lì il tuo attacco.
Il vecchio rise.
– Tutto all'incontrario. Quando tu eri ancora a cinquanta passi da me, avvertii, io, nell'aria, “qualcosa di micidiale”, per usare le tue stesse parole. Capii che dovevo esser pronto a difendermi, tanta è la violenza con cui si manifesta il tuo spirito guerriero e la tua ambizione. Insomma, tu avvertisti bellicosità, in me. Ma era solo un riflesso della tua.
Quindi, Musashi aveva avuto ragione di pensare, fin dall'inizio, che quell'uomo era fuori dall'ordinario. Adesso, sentiva acutamente che il suo interlocutore era il maestro, e lui l'allievo. Il suo atteggiamento si fece dunque deferente.
– Ti ringrazio per la lezione che mi hai dato. Posso sapere il tuo nome e il tuo rango in questo tempio?
– Non appartengo alla Hozoin, io. Sono l'abate della Ozoin. Il mio nome è Nikkan. Sono un vecchio amico di In'ei. Un tempo studiai l'uso della lancia. Ma ora non maneggio più armi.

Quant'è interessante questo capovolgimento?


Musashi aveva semplicemente visto in quel vecchio un riflesso della sua brama di uccidere. L'uomo aveva funzionato come uno specchio, limitandosi a rimandare al mittente la sua aggressività.
Yoshikawa rimanda all'importanza dell'autocontrollo, contrapposta all'idea di un potere eccessivo, ingovernabile: senza controllo, la forza non serve.
Quest'episodio mi è rimbalzato in testa a lungo in questi giorni e non perchè sia un samurai vagabondo (well, un vagabondo, forse) o abbia un eccesso di potere. Effettivamente mi capita spesso di vedere certa gente che mi lancia guardi spaventati, specie quando lavoro come guida turistica il fine settimana. Dopo io gli parlo, loro parlano a me e finiamo per sorridere e stringerci la mano al termine della visita: il primo sguardo, tuttavia, è sempre così terrorizzato...
Considerando che non sono deforme, mi chiedo spesso perchè tanta ostilità, tanto “timore”. Non mi succede ad esempio coi bambini, ma certi pensionati e certi visitatori mezz'età sembrano così maledettamente spaventati, o genuinamente ostili (!). 
Qualche anno fa pensavo fosse per la barba, per un collegamento sinaptico basilare, barba = islamico = possibile terrorista (?), ma con la moda della barba che si è diffusa oggigiorno non è più una motivazione accettabile. Io, dal mio canto, cerco un po' di spezzare quest'atmosfera di reverenza/ostilità/timore, ma altre volte semplicemente me ne avvantaggio, spesso se sono stanco&scazzato, per condurre una visita senza domande e seccature. 
E mi dispiace. Sul serio, non so cosa fare per evitarlo. Ormai ho appositamente intessuto ogni mia visita di battute umoristiche proprio per cercare di evitare quest'ostilità passiva, specie all'inizio del giro. Non comprendo se sia dovuto al mio aspetto, alla severità del luogo o del sottoscritto, o sia una naturale ritrosia dovuta all'entrare in un museo. Oppure dovrei abbassare il livello delle visite, procedere a un downgrade? Usare parole più semplici, un lessico meno elaborato, meno tecnicismi... ma il fatto è che a differenza dei miei due colleghi io sono già noto come la guida turistica per i bambini e gli anziani, quindi non si può dire usi parole difficili.
E se anche così fosse, non capisco perchè citare passaggi eruditi o alzare il livello del discorso costituisca un'offesa. Perchè, ancora una volta, tanta ostilità verso gli intellettuali?
Personalmente, non uso le citazioni per sentirmi superiore, solo per esplicitare un discorso: se hai una tesi, un argomento da sostenere, le citazioni servono per corroborarlo. Le manie di superiorità sono ben altro: non mi faccio problemi ad ammettere, che per quanto mi riguarda, una laurea con un voto basso ottenuta lavorando nel frattempo, chessò, come barista, abbia maggiore dignità di una laurea a pieni voti con le tasse pagate dai parenti. I risultati contano, ma inseriti nel contesto.
Eppure, anche qui, che ostilità, che paura su certe facce se cambi il discorso verso mete più alte.
Nel migliore dei casi se l'espressione non è spaventata, è genuinamente perplessa, come se non capisse di cosa stai parlando, o non ne comprendesse le ragioni. Ad esempio, vado incontro a serie difficoltà, quando provo a spiegare perchè sia più interessato a studiare l'Ottocento invece del Novecento. Sembra che per molte persone quel secolo non esista neppure, il che spiegherebbe il disinteresse verso il Risorgimento e la scarsa coscienza italiana...
Dalla situazione seguente, il frammento di Yoshikawa: l'ostilità che incontro, la paura su quei volti non è che un riflesso della mia ostilità, della mia paura. Può funzionare... circa. Effettivamente non è un lavoro particolarmente incoraggiante, considerando che al di fuori della bellezza del luogo, non vengo pagato praticamente nulla. Spesso vado a piedi a lavoro proprio per “sbollire” il nervoso.
La soluzione consisterebbe dunque nel cercare di mutare per primo atteggiamento, di cambiaremaschera” per così dire, cercando di limare un insopprimibile fastidio verso i visitatori.
Un'idea elegante, se non fosse che per cambiare davvero bisognerebbe cambiare la vera fonte del fastidio, ovvero la struttura economica; che in altre parole posso sforzarmi di cancellare la mia “ostilità interiore” per così dire, ma se non si cancella o si cambia la vera causa del fastidio è inutile cianciare di filosofia zen e buoni sentimenti.
Non basta cambiare il colore dell'edificio (sovrastruttura), occorre modificarne radicalmente l'architettura, la forma, le fondamenta stesse (struttura).
Oppure, molto semplicemente, i visitatori sono spesso arrabbiati od ostili o impauriti per motivi loro, per carattere, maleducazione, problemi famigliari, per dunque una causa esterna del tutto al di fuori della mia portata: in tal caso, essendo l'ipotesi più probabile, quest'intero articolo va dove dovrebbe andare, nel cestino.
  

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