venerdì 7 ottobre 2016

Fosco Maraini, Ore giapponesi


Non so da dove derivi quest'idea che il popolo italiano sia esperto di cose giapponesi. Certo, per carità, siamo stati con la Francia all'avanguardia con gli anime e col riconoscere agli stessi dignità artistica; e sempre assieme alla Francia abbiamo tradotto ed esportato in Europa una larga produzione di fumetti e cartoni, dando loro piena dignità artistica e di adattamento.
E vi sono tratti culturali per certi versi sorprendentemente comuni: la mania di formare grandi conglomerati, il gusto per un etichetta esagerata, il suono stesso della parola, mai aggrovigliata.

Al di fuori di queste coincidenze e di un largo e ampio turismo, non possiamo minimamente paragonarci alla Francia o all'Inghilterra. Accetto nomi di grandi studiosi italiani del Giappone, se ne avete da consigliare, ma è un dato di fatto che ci mancano la traduzione della maggior parte delle opere classiche nipponiche: il romanzo di Genji, ad esempio, è stato interamente tradotto solo di recente e per altro non so se nell'edizione corretta o in una versione romanzata nel giapponese moderno. Così per i 3/4 dei classici letterari giapponesi che non risalgano al secondo dopoguerra. 
Come rilevava Sauro Pennacchioli, persino i manga non sono così ampiamente tradotti come si potrebbe pensare.
Il mondo anglosassone è stato il primo ad approcciarsi alle isole del Sol Levante e mantiene in tal senso il primato di traduzioni, anche a livello raw, incomplete, vecchie, ma pur sempre disponibili.
La Francia ha invece una comunanza artistica, un livello eclettico sorprendentemente simile.

Nel libro di oggi, Ore giapponesi, di Fosco Maraini, l'autore osserva sconsolato come i contatti tra il suo popolo e quello giapponese siano finora stati sporadici e sterili: che il saggio suoni attuale nel 2016, come nel 1956 in cui veniva scritto non è affatto una cosa positiva!

Come definire Ore giapponesi?
L'autore, di professione fotografo, ritorna in Giappone dopo un lungo periodo di assenza. Aveva lavorato sulle isole negli anni '30, venendo poi incarcerato e soffrendo le pene dell'inferno nei campi di prigionia del Giappone più totalitario. Nonostante tutto, Fosco però non è affatto così fosco sul suo destino e quello del Giappone: da ogni pagina trapela infatti l'amore dell'autore per la cultura giapponese.

Si tratta dunque di un diario di viaggio?
Solo in un senso, perché non ne possiede né la brevità, ne completamente il carattere autobiografico.
Si tratta dunque di una guida di viaggio?
Ancora una volta, solo in un certo senso, perché non vi sono espliciti consigli su cosa visitare, nonostante l'autore effettivamente descriva ed elenchi località storiche e templi d'interesse.
Si tratta di un romanzo?
La struttura è quella di un diario, le vicende sono vere, ma la narrazione scorre con alcune incredibili coincidenze. Quindi sì, scorre come un romanzo ben scritto.
Si tratta di un album fotografico?
Domanda bizzarra, ma assolutamente sì! Vi sono numerose immagini, anche a colori nonostante l'anno di fabbricazione del 1956, con alcune gradevoli illustrazioni interne. Certamente il lavoro di Maraini è il fotografo: senza le foto, il pur massiccio testo perderebbe gran parte del suo valore. Nonostante le oltre 500 pagine, ci troviamo davanti a un testo nato come accompagnamento delle fotografie. Le più lunghe didascalie siano mai state scritte, ma pur sempre delle didascalie.

Autunno, incendio di boschi. Momiji in fiore e vecchie lanterne di pietra a Takao, presso Kyoto. 

La vera soluzione a come definire “Ore giapponesi”, di Fosco Maraini è: enciclopedico.
Conoscete, nonostante l'avvento di wikipedia, la sensazione che vi trasmette una fila di libri dell'enciclopedia. La pretesa, squisitamente illuminista, di contenere tutto il sapere dell'uomo?
Ecco, Ore Giapponesi è un libro sul Giappone del 1956, che sulla nazione di quel tempo scrive tutto, dalle più minime usanze, ai più grandi rivolgimenti politici. Si può iniziare a leggere Ore giapponesi con una totale ignoranza sul Giappone e concluderlo con una buona – superiore certo alle attuali guide – conoscenza della mentalità, della cultura, della mitologia e della storia giapponesi.
Un passaggio, ancora nei primi capitoli, descrive involontariamente l'approccio di Maraini:
Sempre a Kanda, si trova una delle strade più affascinanti del mondo; è Jimbo-cho, dove si succedono l'una di seguito all'altra decine e decine di botteghe che vendono libri usati. Quando si parla di Tokyo crocevia di mondi è qui che bisogna venire per assaporare in pieno il profondo significato di simile qualifica. Tutto lo scibile, o quasi, è lì dinanzi agli occhi del viandante. Ed intendo non solo le 100 scienze e sottoscienze dell'uomo e della natura nella classificazione decimale seguita dalle grandi biblioteche, ma la compresenza di almeno due dei massimi punti di vista, dei massimi endocosmi in cui si articola l'opera dell'uomo sulla terra: quelli dell'occidente e d'Asia estrema. A Londra c'è il Charring Cross Road con le sue belle librerie, ma in esse il predominio dell'occidente è quasi assoluto, bisogna andare in Great Russell Street per trovare alcune pochissime case specializzate nelle cose d'oriente; lo stesso dicasi per Parigi o per New York (Roma non esiste neppure, sotto questo profilo). A Jimbo-cho invece il panorama ha la sublime imparzialità d'una visione delle cose terrene presa dall'infinito: tutto appare ortogonalmente, a raggi paralleli, senza le consuete distorsioni dovute alla prigione dell'io in latitudini, longitudini e civiltà. I classici della filosofia tedesca stanno accanto a testi del pensiero indiano, manuali statunitensi di ingegneria o di medicina a libri francesi o svizzeri d'illustrazioni e di storia dell'arte, enciclopedie buddiste a romanzi inglesi dell'ottocento, raccolte di poesia o di humanae litterae cinesi a studi archeologici russi. E, tra parentesi, hai qui lo specchio dell'anima d'un popolo profondamente appassionato alle cose della cultura, a tutti i problemi dello spirito.

Ore giapponesi è Jimbo-cho su carta: vi trovate di tutto.

Tornato in Giappone, il primo luogo che Maraini visita è Tokyo. La magnifica capitale, rasa al suolo dai bombardamenti incendiari degli ultimi anni della guerra, è ora un confuso coacervo di cemento armato, baracche tradizionali, insegne al neon e tempietti nascosti. Siamo nel campo dell'edilizia più selvaggia, dove la tradizione non si fonde alla modernità, ma ne è piuttosto assalita, minacciata, sconfitta. Non siamo ancora alle Olimpiadi di Tokyo del 1964, o alla Tokyo Blade Runner degli anni '80, o al predominio di chip, videogiochi e Akihabara degli anni '90.
Giapponesi in kimono si mescolano a giapponesi in abiti anni '30, come a folle di mendicanti veterani del conflitto e alle facce bianche degli americani di stanza. Il 1956 che Maraini descrive non cambia tanto dal 1946. E' interessante come Maraini veda nel Generale Mac Arthur un successore intelligente al potere dello Shogun e del Commodoro Perry. L'indole guerriera dell'americano sembra infatti aver bene compreso la mentalità nipponica, riuscendo perciò a incarnare la fase di passaggio dalla desacralizzazione dell'Imperatore alla democrazia sul modello statunitense. Mac Arthur-Shogun: un paragone ardito, ma da una persona “sul posto” come Maraini, da prendere come vero.
Va anche detto che in questi anni '50, la modernità in Giappone si presenta stratificata su tanti livelli, per una vicinanza sia al governo fascista delle cricche militari degli anni '30, che alle mode liberali degli anni '20.
Vi troviamo certo, accanto ai marines di stanza, giapponesi “americanizzati” con giubbotti di pelle e nel caso delle donne, gonne e cappellini da New York, da Broadway. L'occupazione americana ha creato il flagello del Pachinko, degli spettacoli di spogliarello e dato la stura alla pornografia occidentale.
Le fotografie tuttavia mostrano molto altro. Sacche di povertà assolute – ubriaconi, mendicanti, soldati mutilati – giapponesi “moderni”, ma con una modernità tutta anni '20, dalle pagliette, alle giacche, alle scarpe laccate, persino alla brillantina della capigliatura.
Un'assoluta confusione di stili, un pandemonio magistralmente descritto da Maraini.

Giappone a metà secolo XX: incontri, incroci, compenetrazioni di costumi, d'abitudini, di stili.
E nonostante la tecnologia di comunicazione e di trasporto ancora arranchi, in attesa del boom anni '70/'80, la pubblicità è già presente a tutta forza, oppressiva, coloratissima, anarchica.
Confessate che un passaggio del genere, ad esempio, non è forse Blade Runner al cento per cento:
Alti sul capo dei cittadini salgono i palloni che sostengono cascate d'ideogrammi con cui si ricorda quali dentifrici, quali bevande alcoliche, quali lampadine elettriche è doveroso preferire. Vicinissimo all'incrocio chiave della città, a Ginza Yon-chome (“il quarto borgo di Ginza”) troneggia sopra un alto palazzo di cemento il globo delle caramelle Morinaga (…) che rotea lentamente su se stesso, come un piccolo corpo celeste posatosi per imperscrutabile elezione proprio in quell'angolo dell'universo; ne mancano torri del burro tale, del sakè tal'altro, delle pastiglie che ridanno la giovinezza subito, della birra che consola di tutti i dolori; o i cartelloni da misurarsi ad ettari in cui si annunciano prossimi spettacoli di cinema o di rivista, spesso con prosperosi nudi femminili distesi attraverso lo spazio di una mezza dozzina di finestre.

Oppure, sull'architettura assimilazionista di Tokyo:
Spentasi l'eco di queste poetiche giostre si resta improvvisamente soli con la scena, lo sfondo; case, palazzi, monumenti. Che giungla caotica di stili! Quali incredibili sovrapposizioni e accostamenti! Dal punto di vista dell'architettura credo che a Tokyo non manchi nulla per riassumere la storia universale d'ogni arte immaginata ed immaginabile del costruire. Non c'è una grande cattedrale gotica o barocca, ma v'è un tempio indiano non lungi da razionali edifici modernissimi, ci sono pagode vicine a stazioni ferroviarie, non mancano imponenti antichi portali a due passi da classici dello stile di ieri, o colonnati greci, chiese russe, piccole Versailles; né sarebbe assurda la pretesa d'inquadrare con un solo colpo d'occhio i tetti leggermente ricurvi d'un tempio buddista e l'intelaiatura marziana d'un colossale gassometro.

Maraini ritorna in Giappone dopo una lunga assenza, per visitare alcune vecchie conoscenze; italiani ormai naturalizzati nell'arcipelago, vecchi amici di penna giapponesi, nuove occasioni d'invito e conoscenze. Vi sono i compagni di prigionia nei campi, i secondini ora mendicanti in strada, affaristi e intellettuali italiani perfettamente adattati al clima post bellico.
Il giudizio di Maraini sui giapponesi, per quanto sempre positivo, anche all'estremo, odia due diverse categorie: i militari e i nisei.
La storia del Giappone viene considerata un'alternanza di momenti pacifici a momenti di estrema belligeranza, in cui le élite samurai trascinano il paese dentro conflitti decisamente distruttivi, sia per l'esterno che per l'interno. Il (poco) convincente paragone è con i prussiani, con il militarismo tedesco.
I nisei sono i giapponesi che vivono in America; una categoria considerata infelice da Maraini, perchè tutta impegnata nel diventare “americano”, senza che per le fattezze stesse del viso possano mai essere davvero accettati come americani: il nisei resterà sempre “un giapponese”, ma proprio per il suo assoluto rifiuto delle tradizioni verrà rifiutato dai giapponesi stessi. La condizione intrappolata del nisei comporta dal canto loro un vero e proprio feticismo per la modernità e la tecnologia, considerata l'unica via per il futuro. I nisei che Maraini incontra considerano con disprezzo anche i più straordinari raggiungimenti artistici dei giapponesi: brucerebbero volentieri le pagode per costruirci un posteggio e preferiscono le colate di cemento ai giardini zen.
Questo punto di vista è anche condiviso dai giapponesi sconfitti dalla guerra, che ritenendo di non avere più nulla da perdere, rincorrono l'americanizzazione più sfrenata: dopo essere stati sconfitti, a cosa serve attenersi al mos maiorum dei padri? Via, via tutto!
Maraini è particolarmente abile nel mostrare l'estrema bruttezza a cui arrivano i giapponesi nel momento in cui vogliono passare da una cultura all'altra, cercando di dimostrarsi americani. In uno dei capitoli, Maraini visita un bar con un juke box, dove i commessi si atteggiano da yankee: la volgarità della scena, l'aspetto da postribolo è terrificante.

Danza dei leoni e gassometro (133); samurai ed autocarro (134)
A differenza di chi oggigiorno considera la cultura italiana come un monolite tutto d'un pezzo, generalmente caratterizzato negativamente e al più separato tra nord e sud, Maraini coltiva ancora la concezione di una lega di città-stato. Le diverse capitali del Giappone vengono pertanto paragonate alle diverse capitali italiane.
I punti di contatto tra Firenze e Kyoto sono ad esempio notevoli:
E' quasi impossibile sfuggire ad un ravvicinamento fra Kyoto e Firenze.
Non solo le due città hanno un posto consimile nei rispettivi continenti come custodi di tradizioni spirituali della più eccelsa importanza, ma si somigliano fisicamente. E' vero che la Valle dell'Arno, tra San Domenico e San Miniato, è più stretta di quella del Kamogawa, ma Firenze dal Viale dei Colli e Kyoto da Higashi-yama sono essenzialmente due laghi di case che riempiono terreni pianeggianti fra monti e colline. E come Firenze ha Fiesole, il Poggio Imperiale, Settignano, così Kyoto ha Higashi-yama, Saga, Ohara. (…)
Chi volesse continuare divertendosi scoprirebbe poi che tanto i fiorentini quanto i kiotesi sono noti, nelle altre parti delle loro rispettive patrie, per quell'attaccamento al centesimo portato a leggendari estremi da genovesi, scozzesi ed ebrei (1). Simile è pure un atteggiamento garbato di vaia-vaia verso ogni entusiasmo, ogni cosa che venga da fuori, come di chi ne ha viste ormai tante nei secoli che nulla può impressionarlo per davvero.
Perfino i dialetti, nell'ambito delle due lingue, mostrano fenomeni analoghi; per esempio la tendenza all'aspirazione. Come il fiorentino dirà la mi hasa per la mia casa, così il kiotese dice arahen per arimasen, e kurehenka per kurimasenka.

(1) Doh, Maraini antisemita!

(38-41) bimbe, ragazza, una madre
E' divertente come Maraini, provenendo dalla cultura tra le due guerre, consideri le culture come auto sufficienti in sé stesse, rigettando una mescolanza tra le stesse. Chi pretende di mescolare elementi di diverse culture in un “tutto armonico” o in un insieme coerente, viene spietatamente preso in giro. Maraini considera ovvio e normale che culture diverse, specie nel caso giapponese, risultino incompatibili visto che sono un “insieme”, una somma di più parti dove l'equilibrio di una componente ne presuppone un'altra. Non è possibile smontare “una parte” di un giardino zen, com'è ridicolo mescolare ad cazzum mobilia e arredamento giapponese ed europeo, per dire.
Mi chiedo cosa ne penserebbe oggigiorno Mariani, considerando che è proprio quest'insieme incoerente (multiculturale?) a dominare attualmente: sedie dell'ikea, con tavolo in stile Luigi XIV, con bonsai alla finestra... Maraini sa bene come una cultura si sviluppi in modo organico, coerente, dove non si può prelevare “a caso” senza snaturare la funzione per cui quell'oggetto era stato concepito.

Non è tutto perfetto. Considero Maraini l'autore perfetto da prendere e rileggere ogni tanto, ma certe riflessioni lasciano davvero il tempo che trovano. Senza discutere se davvero capisca il buddismo e/o la filosofia zen – argomenti che non conosco e non mi interessano – molte delle riflessioni teologiche a metà libro risentono del tempo. La ridicola adorazione del Papa, l'altrettanto ridicola adorazione del Dalai Lama, la pretesa, quasi new age, di connettere cattolicesimo, lamaismo e shintoismo come diverse parti di un tutto... ecco, direi di no, nel campo teologico, già disciplina ridicola solo a nominarla, Maraini diventa davvero un pagliaccio.
E c'è lo stile, ovviamente. Ampolloso, appesantito da periodi contorti e avverbi a pioggia. Il più delle volte Maraini mantiene una proprietà del lessico ammirabile e un tono da “diario” assolutamente leggibile. Con alcuni paragrafi però, gli anni '30 gonfi di retorica verbale ritornano a pieno “regime” e letteralmente si annega nelle subordinate e nelle espressioni retoriche.
Involontariamente comiche, inoltre, alcune osservazioni che ci riportano bruscamente alla realtà sociale degli anni '50. Ad esempio la richiesta di Jane, una turista americana, che chiede con nonchalance a Fosco di proteggerla durante una festa tradizionale, perchè altrimenti verrebbe stuprata dai japs ubriachi. Anche se sa di non correre grandi rischi “perchè sono brutta”.
Jane mi stringe forte il braccio.
- Ho una paura terribile – dice – I'm so scared.- Cosa? Quattro fiammiferi che giocano ad imitare un incendio?- No, no, tutti questi omacci mezzi ubriachi! Meno male che sono brutta.

Verso la fine del romanzo, un'amica giapponese di Mariani, una giovane ragazza, gli confessa il suo amore verso un suo amico italiano scapolo, in cerca di moglie. Maraini dissimula tra le righe il disgusto all'idea e si perde in un paio di osservazioni sull'autocontrollo giapponese. Quando l'amico del cuore ritorna, ovviamente non gli racconta nulla, come sarebbe stato invece educato verso la ragazza. Di conseguenza, disperata, la ragazza si suicida qualche pagina dopo... morte sfruttata da Maraini per un paio di righe di poesia da quattro soldi all'ombra del monte Fuiji vulcano Mihara.

(38-41) bimbe, ragazza, una madre
Scorre anche una vena di piacevole anti-americanismo per tutto il romanzo, dove gli statunitensi di stanza sono legati alla mamma (Oops, intendevo matriarcali), fissati col nuovo, ingenui e generalmente stupidi. Non che mi dispiaccia, dopotutto di stanza a Okinawa ci sono rimasti...

Potrei andare avanti per ore e ore (giapponesi!) a citare il libro di Maraini. Come detto all'inizio, non è un libro, è un'enciclopedia vera e propria. La quantità di spunti e nel contempo di approfondimenti lo rendono impossibile da metabolizzare in una singola recensione.
Ore e ore di lettura; non ho nemmeno toccato l'argomento delle fotografie, che potremmo a rigore considerare di gran lunga più fondamentali del testo stesso.
E cosa scrivere sulla bibliografia?
Venti pagine in coda al testo, con ogni genere di libro, dal francese, all'inglese, senza contare i rimandi alle note a piè di pagina.
E la cura grafica?
Non vi sono solo fotografie, ma anche ex libris, schizzi a matita, disegni e caricature, alberi concettuali e insiemi su ogni genere di argomento, dalla prostituzione, al cibo, alle case, ai tipi di pagode, alle lanterne votive...
L'effetto, per dirla all'inglese, è overwhelming.
Gli incidenti e le coincidenze lo rendono un simil romanzo; l'intelligenza dell'autore e la competenza dimostrata un saggio scientifico; le fotografie e i disegni un capolavoro estetico.

La mia unica raccomandazione di fronte a tanta ro(b)ba è di procurarsi l'edizione del 1956, per assicurarsi l'esperienza progettata in origine da Maraini, senza compromessi sull'epoca, le fotografie o la ricchezza, materiale e spirituale, dell'edizione.

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