venerdì 12 febbraio 2016

L'inganno fotografico del Giappone Meiji


La fotografia inganna, perchè ancor più della pittura, si propone di imitare la realtà, di rappresentarla come forma fedele e convincente. Un'imitazione, la fotografia vorrebbe fermare in un istante il reale, “fotografarlo” per l'appunto nella sua concretezza.
Pretese ingenue, tranne che per le anime semplici.
La pittura di un quadro raffigurante una scena realmente esistente, posta sotto gli occhi del pittore, mettiamo un ritratto, è in realtà un'operazione chimica. Il pittore dipinge le fattezze dell'uomo/donna ritratto registrando con l'uso del pennello e dei colori la disposizione della luce. L'apparato oculo-visivo registra uno certo spettro di colori, che altro non sono una variazione di luci. Attraverso questo spettro di colori, questa disposizione della luce “vediamo” la figura, riconosciamo l'esistenza di un oggetto, o in questo caso un essere umano. Il ritratto “realistico” registra queste impressioni della luce ritrasmettendole sulla tela. In tal senso, scrivevo di operazione chimica. Il quadro è un imitazione, in questo ristretto ambito dell'arte, di quanto vediamo, dell'operazione di codifica compiuto dal nostro apparato visivo.
E' tanto diversa, la fotografia, se ci riflettiamo attentamente? 
Invece che una tela, c'è una pellicola fotosensibile che registra al click del nostro otturatore una certa disposizione della luce che corrisponde a quanto definiamo “fotografia”, che altro non è che un'immagine.
Come con il ritratto, però, la fotografia non è per forza una copia attendibile della realtà. Un ritratto commissionato da una figura di rilievo può venire migliorato, un mecenate può chiedere che quel suo brutto naso venga raddrizzato dalla “magia” del pennello, o che scompaia quel brufolo sulla guancia ecc ecc La fotografia non offre, contrariamente a quanto si pensa, maggiore affidabilità. Senza citare photoshop, o nel '900 le grossolane opere di falsificazione dei vari governi totalitari, la fotografia è sempre parziale. Lo zoom, l'angolatura dell'apparecchio e le richieste di mettersi in posa al soggetto – anche solo il “cheese!” tradizionale – sono inganni della presunta “affidabilità” della fotografia. Ci si aspetta un certo risultato dalla macchina fotografica e si chiede alla realtà (il soggetto ritratto) di aiutarci a raggiungerlo.

Usare la fotografia come documento storico non è pertanto così ovvio come potrebbe sembrare. Specie nell'Ottocento e nei primi del Novecento, la delicatezza delle macchine e il costo della procedura rendevano l'affare fotografico particolarmente delicato. Non solo nei ritratti di famiglia, ma anche nelle foto di “vissutoquotidiano occorre considerare che erano sempre scene in posa, accuratamente studiate e richieste. Non c'è in altre parole naturalezza, nella fotografia del XIX secolo: c'era sempre un fine dichiarato, un'ideologia ben precisa. Questa può essere tanto banale quanto becera, che si spazi dalle foto ricordo prima di partire per la guerra, alle foto politiche o alle prime foto pornografiche. Quelle che spesso sembrano le foto “naturali” sono spesso ricreate in studio, attraverso complicati procedimenti.
Va inoltre osservato che, a differenza dei governi attuali, nell'età vittoriana si capiva con acume il valore di queste nuove tecnologie e sia il loro pericolo che potenziale nei confronti delle masse.

Per quanto riguarda le foto nel Giappone dalla caduta dello Shogunato in poi, in piena età Meiji, (dal 1868 al 1906) questa considerazione va sempre tenuta a mente. Dal '60 in poi, il Giappone conosce una spettacolare modernizzazione, sia tecnologica, che politica, che militare.
Il paese era considerato per gli standard europei il modello guida per le nazioni in oriente: nel suo adottare senza compromessi la via europea, era divenuto tra gli anni '70 e '80 un'imitazione dell'Inghilterra. (1) Gli ambasciatori e i diplomatici comparavano in modo incessante i due paesi, Cina e Giappone, come due modelli antitetici: da un lato le piccole isole coraggiosamente avviate verso il futuro, dall'altro il gigante immobile e stagnante, troppo ciccione, troppo pigro per progredire. La situazione non era ovviamente così semplice, a partire da tanti fattori: il carattere di arcipelago del Giappone, la sua impenetrabilità ai commerci dell'oppio, una classe di samurai di gran lunga più flessibile dei funzionari cinesi e sopratutto l'alternativa tra Shogun e Imperatore, con la possibilità di alternare i due a seconda di quanto richiesto dal periodo storico. Se dunque la Cina ha sempre dovuto progredire con cambiamenti giganteschi, del genere “o tutto, o niente”, i pragmatici samurai sono sempre riusciti ad alternare il sostegno a una delle due figure, a seconda di quale potesse meglio guidare la nazione.



Quindi perché nella fotografia giapponese fino alla guerra russo-giapponese del 1905 troviamo sempre samurai, geishe, monaci e statue di Buddha? Dove sono le ferrovie, gli abiti occidentali, i cannoni, le marce militari, i lampioni a gas, i telegrafi, le vaporiere, gli impianti tessili?
Dove la vediamo questa Restaurazione Meiji?
La risposta sta ovviamente nell'intelligenza dei giapponesi, che da subito compresero il valore della fotografia. Lo storico David Odo riporta infatti che “quando la fotografia fu introdotta in Giappone” (attraverso gli olandesi a Deshima) “fu percepita sia come tecnologia, che come scienza”.
Le fotografie che circolavano sul Giappone antico erano un'artificiale produzione dei giapponesi per vendere ai turisti occidentali. Foto (quasi) sempre in posa, tranne che per i paesaggi, si richiamavano agli stereotipi dei turisti francesi e inglesi. Via dunque di geishe più o meno ignude che bevono il te, di ritrattistiche di giovani figlie dei locali in kimono, di guerrieri in armatura completa, di monaci intenti a pregare e così via.
Nonostante il Giappone di quegli anni – specie nel periodo Rokumeikan – compisse ogni sforzo per assomigliare all'Occidente, i turisti in visita dall'Europa preferivano ricercare l'antico, il secolare, la tradizione dei fiori di ciliegio. Di conseguenza, sia nei resoconti che nella fotografia, si privilegiava il bucolico e l'incontaminato, quanto oggi gli inglesi con altrettanto razzismo dichiarano “pittoresco” quando visitano l'Italia (o meglio, la loro personale colonia, la Toscana).
Il romanziere francese Pierre Loti riservò in occasione di un ballo di corte a Edo, tutti i complimenti agli inviati cinesi, presenti nei loro abiti caratteristici. I giapponesi, al contrario, per essersi vestiti all'occidentale, furono criticati spietatamente. Non a caso il fotografo giapponese “di punta” del periodo era Kusakabe Kimbei, di Yokohama: i suoi album, gli album Kimbei, erano un mercato esclusivo per gli occidentali che non avevano i soldi o non volevano, per paura di attacchi xenofobi, viaggiare per il Giappone fuori Edo.

Il passaggio repentino di una società feudale a un'industrializzazione violenta sorprende tanto noi, quanto sorprendeva i contemporanei. Dopo aver vissuto per trent'anni in Giappone, l'orientalista Basil Hall Chamberlain confessava di sentirsi vecchio “di quattro secoli”. Aveva infatti, quando scriveva nel 1905, assistito a un cambiamento repentino, decisamente epocale.
Nel saggio Things Japanese, scrive:
Aver vissuto attraverso la fase di passaggio a un Giappone moderno fa sentire un uomo innaturalmente vecchio; perchè adesso che è nella modernità, può sentire l'aria piena di chiacchiere sulla bicicletta, i bacilli e le “sfere d'influenza”, e nel contempo può ancora ricordarsi nitidamente il Medioevo.

Con humor inglese, Basil Hall Chamberlain osservava come già nel 1905 il Sol Levante era argomento di scribacchini, che inondavano il mercato librario di stereotipi su quel paese. Addirittura si lamenta in Things Japanese che “NON aver scritto un libro sul Giappone sta rapidamente diventando un titolo di distinzione”.
Segno dunque d'una mania jappofila tutt'altro che recente, nonostante i lamenti di chi dagli anni '70 in poi lamenta l'infatuazione “recente” degli occidentali per gli anime e il sushi. Un legame con un Sol Levante stereotipato (e probabilmente idealizzato) è sempre esistita dall'Ottocento, con i suoi alti e bassi... con al momento l'attenzione che tende verso il basso.
In generale, tornando alle fotografie, Julia Friedman per Hyperallergic, riassume bene quale fosse la situazione:

La scelta del soggetto in una società che era così coscientemente impegnata nella modernizzazione è meglio compresa dalla semplice ragione del successo economico... molte di queste immagini erano prodotte per gli stranieri – studenti sul Grand Tour, o turisti alla ricerca di un souvenir caratteristico. La tecnologia qui funzionava al servizio non dell'autoriflessione, ma dell'industria, che è forse un uso particolarmente moderno dell'immagine (fotografica).  

Ichiki Shiro, Shimazu Nariakira, dagherrotipo, 1857.
La più antica fotografia umana scattata in Giappone. Una parte di tre prese in una giornata di bel tempo il 17 settembre 1857. il soggetto è il Lord Shimazu. La fotografia fu poi scoperta appena nel 1975, a Kagoshima, negli archivi della famiglia Shimazu.

  
Usui. Uomo tatuato, 1880.
Il tatuaggio era diffuso nella società giapponese tra coloro che per lavoro dovevano esporre il proprio corpo: portatori di palanchino, servitori, arbitri di case da gioco (l'assenza di vestiti impediva agli arbitri di barare) e ovviamente tra i gruppi con un forte senso di identità, come i pompieri e la bassa malvivenza.
Con la Restaurazione Meiji, il governo intraprese diverse campagne contro il tatuaggio, visto come un'usanza tribale e arretrata. Sembra però che la moda persistesse, per la gioia dei turisti alla ricerca del Giappone “tradizionale”.
  

Gaspard Felix Tournacon (noto come Nadar), Shibata Sadataro, uno dei leader della missione dello Shogun a Parigi nel 1862.
Volutamente ho evitato foto di (pseudo)samurai di cui ci sono già troppi post in rete. In questo caso però l'espressione dell'anziano in foto sembra avere personalità, cosa rara in questi vecchi album.


Stillfried o Kusakabe. Fanciulla nella tempesta, 1880.
Prima di scattare la fotografia, furono inseriti dei cavi nei vestiti per simulare che fossero agitati dal vento, mentre graffi sul negativo della foto permisero di simulare l'effetto della pioggia.
Trovo la foto tra le più belle che vi presento, sia per la posa che per la ragazza.
E' notevole come l'intera scena sia totalmente artificiale: un buon esempio di come la fotografia degli esordi ricreando tutto in studio fosse una creazione totalmente artificiale.
In questo caso abbiamo una ragazza in (finto) abito tradizionale, con un (finto) ombrellino che si difende da una (finta) pioggia, curvata da un (finto) vento.


Ogawa. Bellezza giapponese con fiori di ciliegio, 1890.
La foto è stata con immensa pazienza ricolorata dall'autore. E' notevole come si sia riusciti a eliminare il colore rossiccio di fondo di molte delle fotografie del periodo Meiji.


Usui. Geishe, 1880.
Un articolo fotografico sul Giappone deve sempre avere delle geishe, è una legge non scritta...


Farsari, Kobe, 1890.
La città di Kobe. Dalle bandiere, sappiamo che quelle sono le ambasciate inglesi e tedesche. La zona potrebbe sembrare un quartiere europeo, tranne per i risciò.


Suzuki. Occidentale, sconosciuto, 1880.
Una curiosità: la foto di un occidentale in visita scattata però da un giapponese.
Non è nulla di che, ma come non mostrarvi l'orgogliosa pipetta all'angolo della bocca, il cappello stravaccato sulla nuca, il sorriso di magnifica arroganza (corroborata dalle mani in tasca!). 
I men on the spot.


Stillfried. Donna reclinata, nudo, 1870.

  
Kusakabe. Ragazza che legge un romanzo, 1890.


Fotografo sconosciuto. Servitrici di una casa del te, 1890. Foto decisamente in posa!

A Tokyo nel 1887 un giornale riportava indignato la notizia che c'era a Yokohama un occidentale straniero che andava in giro a pagare le donne locali, perchè posassero nude nelle sue fotografie, rivendendo poi i suoi turpi album ai barbari europei. Tuttavia, quando Stillfried se ne andava allegramente a zonzo nel 1870 nessuno si lamentava troppo delle sue foto “erotiche”, segno che il pudore nel giro di vent'anni era progredito rapidamente, sulla scorta dell'industrializzazione Meiji.


Uchida. L'imperatore Mutshuhito Meiji, 1873 (da cui il nome del periodo).
Il grande valore di questa fotografia nasce dal fatto che
a) è la prima foto dell'imperatore
b) venne scattata quando aveva appena vent'anni.
La fotografia fu vietata dal governo, che compì ogni sforzo per eliminarne le copie in circolazione, sostituendole con delle litografie. Il valore di un'immagine, di poter vedere fotografato un “dio” esattamente qual'era, non era stato ignorato dalle autorità.
Il permesso di fotografare l'Imperatore fu nuovamente concesso appena nel 1889, dieci anni dopo.


(1) Cito da Osterhammel, Storia della Cina Moderna XVIII-XX “Il Giappone si rivelò l'allievo più accorto e diventò l'Inghilterra dell'Oriente; fu in cambio premiato negli anni '90 dell'Ottocento, quando venne rimosso il suo svantaggio sul piano del diritto internazionale, quando vennero cioè aboliti i trattati ineguali stipulati in seguito all'apertura del 1853-54”.
Nella nota bibliografica aggiunge “Per quanto riguarda l'idea contemporanea di “particolari affinità” tra Gran Bretagna e Giappone, vedi Toshio Yokoyama. Japan in the Victorian Mind: A study of Stereotyped Images of a Nation 1850-80”.

Fonti:
How Tourism Shaped Photography in 19th Century Japan, by Danny Lewis, Smart News (Smithsonian).
Early Japanese Images, di Terry Bennett.

4 commenti:

Unknown ha detto...

La ragazza che legge il romanzo è bellissima.

Il Duca di Baionette ha detto...

Articolo molto interessante con belle foto. Conoscevo già un po' l'argomento (sì, per le tette giappo d'epoca, ovvio), ma non avevo mai avuto modo/voglia di parlarne: averlo qui da segnalare agli amici fa comodo! ^^

Mi hai fatto tornare in mente Edoardo Chiossone, il genovese che nel 1888 dipinse (ok, non è una foto) il ritratto ufficiale dell'Imperatore da usare per motivi di stato. Chiossone fu un consulente straniero importante per la modernizzazione del Giappone, introducendo la tecnologia per ottenere la filigrana sulle nuove banconote e aiutando nello sviluppo dei francobolli. Io l'ho scoperto quando cercavo personalità famose, o divenute poi famose, presenti a Genova durante i moti del 1848 (Chiossone era un ragazzino che studiava arte).
https://en.wikipedia.org/wiki/Edoardo_Chiossone

Coscienza ha detto...

@Alessandro Madeddu
E' una bella composizione... preferisco però le due foto “colorate” all'epoca, specie il ritratto della ragazza coi fiori di ciliegio, nonostante abbia un'espressione un po' ebete ^^

@Duca di Baionette

Grazie per le segnalazioni! Conto di approfondire l'argomento “estremo oriente nell'ottocento” a breve, al momento la mia conoscenza al riguardo è un misto di ricerche su Internet e bibliografia trovata per altri corsi universitari (Storia dell'Espansione Europea e Storia Globale, principalmente).
In giro si trovano anche foto migliori, anche se “restaurate” nei colori in modo eccessivo.

Mai letto prima di Chiossone, sembra un personaggio interessante. Di solito per gli artisti italiani attivi in Oriente si nomina il grande Felice Beato, in realtà di nazionalità piuttosto incerta. Non avevo mai considerato la filigrana delle banconote un'innovazione tecnologica, anche se in effetti...

Urban Traps ha detto...

Great post thankks