lunedì 23 febbraio 2015

Magia polacca: La Torre della Rondine, di Andrzej Sapkowski


Vysogota di Corvo è un anziano eremita che vive nelle paludi. 
Esiliato, cacciato dall'università per idee sovversive, vive una vita tranquilla tra pesca e meditazione. Un giorno, trova una fanciulla svenuta, dalle ferite lancinanti. 
E' Ciri, la principessa delle leggende: l'ultima discendente del trono di Cintra, un incrocio più unico che raro tra profezie millenarie e sangue elfico. Mentre accudisce la giovane convalescente, la Fiamma di Cintra inizia a raccontare la sua storia...
Ranuncolo è un bardo col debole per le ragazze. 
Al tramonto, mentre siede con Geralt, Milva e Regis intorno al fuoco, scrive le sue avventure che ha già pomposamente nominato “Cinquant'anni di poesia”. E' dai frammenti di questo tubus che apprendiamo le ultime fatiche dello strigo Geralt...
Kenna Selbourne è una soldatessa di Nilfgaard. 
Svolge il ruolo di spia e ha poteri da sensitiva. E' processata da un tribunale imperiale, accusata di tradimento. Sotto lo sguardo del giudice inizia la sanguinosa testimonianza della caccia a una pericolosa banditessa di nome Falka, pseudonimo di Ciri...

Ho tentato in questa rozza sinossi di mostrarvi la principale caratteristica dell'ultima fatica della Casa editrice Nord, ovvero la traduzione della Torre della Rondine del polacco Sapkowski
Il tratto principale dell'ultimo romanzo di Sapkowski è la struttura a clessidra.
Mentre i racconti dell'autore polacco ricordano delle fiabe e ne ricalcano la struttura lineare, dove abbiamo un (anti)eroe, Geralt, alle prese con un mostro che raramente si mantiene tale, nel romanzo La Torre della Rondine la struttura appare singolarmente complessa. La testimonianza di Ciri all'eremita Vysigota apre una parentesi che si manterrà stabile per quattrocento pagine sulle cinquecento del libro. La testimonianza – scritta stavolta – del menestrello Ranuncolo occupa un intero capitolo, mentre Kenna Selbourne permette una variante giuridica di questa tecnica, permettendo uno sguardo “dall'interno” nel mondo di tagliagole e spie che insegue Ciri.
Una struttura a clessidra, perché in alcuni punti Geralt, Ciri, Ranuncolo, Kenna e molti altri finiscono per incrociare i rispettivi sentieri in un incontro/scontro piacevolmente sanguinoso.
Verso il termine del romanzo queste rispettive linee sfumano, man mano che l'azione ritorna nel presente: Ciri abbandona Vysogota, il punto di vista ritorna fisso su Geralt, s'aprono occasionali parentesi su diversi personaggi secondari utili alla trama.

Il mondo di Sapkowski non è mai stato sfaccettato, ricco di riferimenti e vivo come in quest'ultimo romanzo. Se già Ciri e Geralt sono personaggi ricchi psicologicamente, afflitti dall'introspezione filosofica e un certo nichilismo di fondo, il fantasy polacco si arricchisce di co-protagonisti credibili, moderni nel pensiero e nelle accuse che lanciano. 
Il cacciatore di taglie Bonhart, un sadico sull'orlo della pensione. 
La determinazione ben poco femminile di Yennefer, maga ormai in esilio dalle sue stesse consorelle. I compagni di Geralt: dall'arciera Milva a Ranuncolo (ovviamente!), da Angouleme al rinnegato Cahir. A ognuno, anziché relegarli nello stereotipo, Sapkowski concede largo spazio, cercando d'inserirvi nuovi tic, nuovi tratti di personalità. Aiuta, in tal senso la mole enorme di dialoghi, fedelmente rispecchiata nei videogiochi. Tutti parlano, discutono, si lanciano in monologhi e imprecazioni contro la “cattiva” natura umana. Dalla critica degli outsider di Sapkowski non sfugge nessuno: a finire accusati piombano tutti, dalla nobiltà, al clero, ai mostri, agli elfi terroristi, ai druidi persino, in una delle scene a mio parere forse tra le più intense del libro.

mercoledì 18 febbraio 2015

Un gioco hipster: Life Is Strange (episodio 1)


Non ho mai compreso la paura delle imitazioni in campo artistico, che siano narrative, videoludiche o cinematografiche. Se uno certo stile, un certo argomento diventano mainstream, si moltiplicheranno inevitabilmente le opportunità di prodotti originali e ben fatti. Nella massa delle imitazioni scadenti quella minuscola percentuale di prodotti innovativi e ben fatti non è da sottovalutare. E va da se che maggior successo reclama la moda, maggiore sarà la percentuale di prodotti ben fatti. Se vanno forte i vampiri, senza dubbio verremo inondati di ciarpame e schifezze, ma tra queste avremo finalmente dei buoni prodotti. Un film sull'argomento dopo anni che la produzione ristagnava, un romanzo dopo decenni che l'attenzione del soprannaturale era fissa altrove. Certo, questo non eliminerà Twilight e le sue imitazioni, ma non si può nemmeno negare il loro ruolo di “apripista” che sollecitino l'attenzione di produttori e clienti.
Per evitare fraintendimenti, lo ripetiamo: imitare non basta. Le imitazioni non piacciono a nessuno e neppure i plagi sfrontati. Tuttavia la pura imitazione è davvero rara. Anche nelle più becere operazioni commerciali, si preferisce variare degli elementi, aggiungere una variazione alla consolidata struttura di base. Nel campo dei videogiochi, Lords of Fallen era un chiaro plagio di Dark Souls. Eppure aggiungeva del suo alla miscela giapponese, non sono nella grafica, ma nella stessa curva della difficoltà, addolcita quant'era giusto. Un voto basso lo meritava per l'astronomica quantità di bug, ma certo non per aver osato imitare Dark Souls.


Ugualmente il gioco di oggi, Life Is Strange, nasconde davvero a stento d'aver imitato stile&scelte morali che hanno (giustamente) reso famosa la saga della Telltale. The Walking Dead, Game of Thrones... La Telltale sembra essersi specializzata in questo genere di produzioni, dove l'avventura grafica vira sull'emotivo strappalacrime, con una struttura di scelte volutamente lancinanti.
Life Is Strange, in apparenza, sembra riprendere proprio questi elementi. 
E' un'avventura grafica post avventure grafiche, dove non esistono indovinelli ostici e abbondano invece dialoghi e scelte che impattino sulla trama. Tuttavia, questi elementi vengono in Life Is Strange a tal punto mescolati, a tal punto migliorati che il modello Telltale sbiadisce all'orizzonte.
La principale ragione sta nell'aver costruito un videogioco che è un vero videogioco, non solo video interattivo: gli ambienti sono esplorabili, il controllo sulla fragile protagonista esiste, la sensazione del giocatore/trice di controllare il mondo che lo circonda è piuttosto forte. Si può tranquillamente dire che l'allievo, la Dotnod Entertainment, ha superato il maestro, la Telltale.

Partiamo dalla protagonista, che immersa nel mondo dell'adolescenza è un personaggio finalmente libero da certe convenzioni che vogliono la donna nel videogioco “tosta&gnocca” per relegarla poi a comprimario, ricompensa o tappezzeria.
D'altronde, il primo Lara Croft usciva nel 1996. Tempi duri, dove farsi accettare era un affare difficile. In videogiochi come Duke Nukem il testosterone sembra letteralmente gocciolare dallo schermo, mentre Doom già dall'uscita presenta mod per tappezzare di manifesti pornografici i corridoi infestati. (1) Per sopravvivere in un ambiente del genere occorrono una coppia di pistole e una taglia di seno (esagonale) abbondante, altrimenti addio vendite e addio protagonista femminile.
Tempi incivili, che molti rimpiangono.
Certo non il sottoscritto, che è invece felicissimo di giocare finalmente con una protagonista “normale”. Maxine non è né una furiosa killer senza paura, né un piagnucoloso pacco-regalo al termine di una quest di bassa macelleria, pronta per essere recapitata al mittente-cavaliere.
E' semplicemente una ragazza liceale, con i suoi difetti e tutto il suo essere “normale”, per quanto può ovviamente consentirlo la finzione. Non a caso i recensori hanno faticato a definirla, avvicinandola per età a Ellie di Last of Us, ma precisando che le manca il carattere forte di quest'ultima. In campo videoludico in realtà il range di personaggi femminili a cui fare riferimento è talmente ridotto (al di fuori degli Rpg) che provare a fare paragoni evidenzia solo la povertà del settore. Quindi segniamoci la data sul calendario coll'evidenziatore fluorescente, finalmente dopo anni siamo arrivati a una protagonista femminile che è un essere umano e non un'appendice del protagonista maschile o in alternativa delle fantasie del giocatore maschio che via joystick la comanda.

lunedì 16 febbraio 2015

Pashazade, di Jon Courtenay Grimwood


E' ormai moda affermare che per descrivere in modo efficace un'ucronia l'infodump è indispensabile. Che si tenti un dialogo o un'intromissione del narratore omnisciente, l'infodump risulterà inevitabile, perchè un'ucronia storica presuppone un cambiamento talmente profondo, talmente radicale che il lettore rischia di restare spiazzato, confuso. Non avendo il background di studio e/o documentazione che possiede lo scrittore, il lettore fatica a farsi strada e dev'essere “imboccato” con un bell'infodump all'inizio del libro. Potrà poi procedere tranquillo nella storia, passato l'olio di ricino di uno stile tanto rozzo.

Ovviamente, è tutto falso.
L'infodump danneggia l'attenzione del lettore ed è una tecnica brutale e becera, che dà la fastidiosa impressione di sentire un professore che ti parla all'orecchio, discorso noioso dopo discorso noioso. Ma sopratutto la necessità dell'infodump in un romanzo di fantascienza ucronica viene contraddetta in continuazione. Il romanzo Pashazade, ad esempio, è un'ottima dimostrazione che un'ucronia non deve per forza spiegare tutto e subito, ma anzi farsi forza proprio del mistero della sua ambientazione.

Nell'ucronia di Jon Courtenay Grimwood, la prima guerra mondiale è terminata bruscamente nel 1915, attraverso un accordo diplomatico negoziato dagli americani. Di conseguenza quella che conosciamo come “Grande Guerra” è in realtà una delle tante guerre balcaniche d'inizio Novecento; l'impero germanico è forte e vigoroso, l'Austria-Ungheria continua a duellare con un Impero Ottomano tanto gigantesco quanto frammentato. Di conseguenza il Medio Oriente e i territori del Nord Africa risultano aree sì sottosviluppate, ma pacificheperché l'attenzione politica e militare del mondo occidentale risulta concentrata altrove. 
Nella provincia egiziana dell'impero ottomano, El Iskandryia (abbreviata per semplicità in Isk) è una città portuale ricca e fiorente, uno scalcagnato aggregato di arabi, ebrei, greci e occidentali. Il giovane governatore la dirige sotto pesanti influenze del Kaiser.
Quello che fa Grimwood è prendere l'instabile situazione dell'impero ottomano di fine ottocento/inizio novecento e stabilizzarla nei suoi fermenti interni, dalle spinte nazionaliste alle spinte religiose. L'impero viene poi congelato e trasportato di peso nel futuro del ventunesimo secolo, arcaismi religiosi e slanci tecnologici tutto incluso nello stesso pacchetto.
Il lavoro di ricostruzione fantascientifica funziona sotto un profilo romanzesco. L'abilità di Grimwood di coniugare introspezione psicologica, azione e descrizione del setting è impressionante. Arriviamo a sapere che la prima guerra mondiale non è terminata nel 1918 solo tramite un dialogo casuale a metà libro, ma da tanti, tantissimi dettagli sappiamo fin da subito che siamo dentro un'ucronia storica, una realtà alternativa pseudo ottocentesca. L'ambiente in cui si muovono i protagonisti viene lentamente “infiltrato” da piccoli dettagli che discordano dai nostri studi di storia. La meravigliosa Isk si colora di arabesco in arabesco un passo alla volta e la sensazione del lettore è di scuotere una fotografia fresca di fabbrica, intravedendo i colori che lentamente “emergono” dalla carta.
- No, – rispose Raf. - Linee temporali alternative. Vanno alla grande negli Stati Uniti. - Era vero. – Servono a capire cosa è successo, analizzando quello che invece non è successo, ma sarebbe potuto succedere... Per esempio, se l'America avesse partecipato alla terza guerra balcanica...- Ma è rimasta neutrale, come noi.- Non nel conflitto del 1966-1975, – disse Raf. – Parlo della terza guerra balcanica, 1914-15. Mettiamo che Woodrow Wilson non avesse strappato un accordo tra Berlino e Londra ma avesse inviato le sue truppe a fianco di quelle britanniche. Londra avrebbe potuto vincere. Il Kaiser ne sarebbe uscito indebolito in modo decisivo...- Il Kaiser avrebbe vinto comunque, – disse categorico Hamzah. – La storia è scritta da Dio.Raf sospirò. – Sì, ma immaginate, – disse. – L'impero prussiano crolla nel 1923, com'è quasi successo a quello austro-ungarico. In tal caso, gli ottomani avrebbero seguito la stessa sorte? Cosa sarebbe successo al Khedivé egiziano?

lunedì 9 febbraio 2015

The Black Power Mixtape 1967 – 1975 (documentario)


Mi risulta sempre difficile scrivere di cinema, perchè in questo campo più che in altri avverto una forte mancanza professionale. Internet rigurgita di esperti e recensioni, ma trovare chi, tra questi, ne sappia davvero è un'impresa molto, molto difficile. Ogni canale Youtube contiene un aspirante cinefilo, ogni studente di cinema deve possedere la sua pagina, il suo blogghino di piccole opinioni.
Perfino nell'ambito delle bacheche e dei profili privati tutti, dal vicino di casa al postino, sembrano aver una laurea cum lode nelle più raffinate tecniche cinematografiche. Va da sé, che tolti i paroloni e smascherate certe mode, i veri esperti scompaiono all'improvviso.

Un recensore che sappia davvero recensire dovrebbe avere un set di valori e parametri tecnici cui attenersi, che mescolino abilità oggettive (saper riconoscere le inquadrature, i colori, la regia, gli effetti speciali, saper compiere le necessarie storiografie e cronologie...) e giudizi morali (laddove questa moralità non deve tramutarsi in moralismo, né sopraffare il giudizio tecnico).
E' preferibile leggere una recensione onesta, dove l'autore ammette il suo background culturale e le sue convinzioni, che l'ennesima trita&ritrita analisi pseudoggettiva, dove i pregiudizi del soggetto vengono mascherate da puntigli di carattere tecnico
A proposito ad esempio dell'ultimo trailer dei Fantastici Quattro, preferirei che i nerd che si lamentano del cambio di pelle dell'uomo torcia ammettano pacificamente che si tratta di un loro, personale pregiudizio. Lamentarsi della negritudine della Torcia Umana come insopportabile (?) tradimento del canone originale non è essere nerd, è “essere razzista”. 
D'altronde gli stessi recensori che piangono sui Fantastici Quattro hanno accolto con piacere la notizia che Motoko Kusanagi, la protagonista giapponese dell'anime giapponese (e in alcuni punti anti-americano) Ghost in The Shell, verrà interpretata da Scarlett Johansson. Perchè scegliere un'attrice bianca per interpretare un ruolo orientale in un film ambientato nella Tokyo cyberpunk anni novanta è qualcosa che francamente mi sfugge. Tanto più che il resto della squadra della Maggiore è a sua volta giapponese e sempre a sua volta agisce nelle tradizioni e nei costumi giapponesi. Questa violazione del canone ovviamente è stata accolta con favore, perchè permette di occidentalizzare una trama che altrimenti - poveri ciccioni americani - sarebbe troppo difficile da comprendere.
Un recensore dovrebbe dunque giudicare un film in totale astrazione, sulla base di una serie di parametri fissi che si è posto. In questo modo prescinderebbe sia dalle mode del momento, che giudicano un film a seconda dell'attenzione che vi riserva il pubblico, sia da un certo conservatorismo cinefilo, che automaticamente promuove un film sull'unica base dell'anzianità del regista. Big Eyes di Tim Burton, pellicola da consigliare solo agli insonni, diventa così un capolavoro... non sulla base di argomentazioni oggettive, ma solo perché l'ha girato Tim Burton!
E' dunque preferibile in questi casi leggere le recensioni di chi magari ammette senza problemi la sua ideologia e proprio per questo scrive con chiarezza e senza peli sulla lingua; le recensioni cattoliche di Frozen, o di Avatar sono pungenti, ma se non altro oneste. Sulla base di alcuni valori, si decide di rigettare il film. Tralasciamo che per me Frozen, con il merchandising e con la sua pubblicità esasperata rappresenta il peggio del turbocapitalismo disneyano... (1)

Questi “attrezzi”, questi strumenti per recensire non li possiedo. Non guardo film a sufficienza per poter esprimere giudizi. Quello che posso fare, come in quest'articolo, è segnalare prodotti interessanti, che reputo criminalmente misconosciuti. E pur con questa premessa non voglio scusare mie eventuali gaffe o errori di ricerca, di cui mi scuso fin da subito con gli specialisti dell'argomento, o con chi di cinema ha studiato (buon per lui!).



In questo caso la segnalazione è Black Power Mixtape 1967 – 1975. E' un documentario. Quest'etichetta ovviamente peggiora le cose, perché evoca immediatamente tutte le sensazioni che siamo soliti associare ai documentari: savane, zebre e tigri, noiosi commentari di vecchi bacucchi sugli ecosistemi dell'africa subequatoriale... Il documentario come viene inoltre proposto di solito è associato all'istruzione e prevede un fine didattico che prevarica sul piacere dell'immagine. La tipica cosa che si fa quando si guarda un documentario è fare i compiti per l'ora di lezione successiva o in alternativa starsene a letto con la febbre. Non è questo il caso e vi posso citare almeno altri cinque documentari degli ultimi dieci anni che riscattano il genere sia sul profilo stilistico che contenutistico. In questo caso dunque non abbiamo l'ennesimo lacrimevole documentario sull'Africa nera, ma in un certo senso il collegamento sussiste, perché dal vecchio continente ci spostiamo nel nuovo e sono gli afroamericani degli anni sessanta i protagonisti, mentre il colore nero oscilla dall'esterno dei protagonisti, al nero (dentro) del marciume capitalista che proprio in quegli anni del Vietnam e di Nixon, comincia a rialzare la testa.

lunedì 2 febbraio 2015

Alien Dungeon (racconto)


Era da un po' che non postavo un racconto. Al momento – a dire il vero tre settimane fa – sto lavorando su due diversi racconti lunghi (novelle), l'uno dall'ambientazione ottocentesca, l'altra dall'ambientazione (gulp!) fantasy. Quando terminerò la prima stesura di entrambe, magari ve ne scriverò per avere un parere. In questo caso volevo scrivere qualcosa di semplice e diretto. L'idea era di prendere il classico protagonista di uno sparatutto e inserirlo in un racconto full action. Scrivendo in prima persona ho avuto la conferma: per essere il protagonista di uno sparatutto devi essere muscoloso, brutale, disciplinato. In altre parole: un coglione militarista pieno di testosterone, un po' come il protagonista di American Sniper o come molti nerd vorrebbero essere, tolte patatine&Coca Cola. Buona lettura e non scordate di commentare!

Alien Dungeon 



Il corridoio è una sottile linea nera, le pareti brillano ogni tre metri per gli ologrammi color rosso neon. Faccio un passo, poi un altro. Gli stivali rinforzati strisciano silenziosi sul pavimento.  
Il fucile a impulsi pesa maledettamente sul braccio, i chili di oltre venti caricatori affastellati sulla schiena diminuiscono il movimento, rallentano. Li ho raccolti uno dopo l'altro dai cadaveri dei nemici, laggiù nel labirinto. Mi fermo un momento per aprire la culatta del fucile, far scattare uno dopo l'altra le munizioni. Click, click, click. Stringo sulla vita la cintura, allaccio le stringhe del giubbotto in kevlar, strofino via lo sporco dallo stemma sul braccio. 
Araldica rossa e bianca, un incrocio di filamenti sopra uno sfondo blu scuro. 
Great Britain Elite Corps fucking yeah! 
Riprendo a camminare nel corridoio, puntando il fucile ora a destra, ora a sinistra. Gli ologrammi brillano intensi, poi si affievoliscono al chiarore di un lumicino rossastro. Alzo il fucile, allineo alla spalla. Punto verso l'estremità del corridoio. Nel momento stesso in cui una silhouette s'affaccia dall'ologramma stringo il grilletto, scarico una raffica. La figura si piega in due, emette un grido strozzato. Corro in avanti, la raggiungo. E' una donna impaludata in un ampio mantello azzurro, il capo avvolto da un turbante. Tossisce, sputacchia sul vestito un'ampia boccata di sangue. Crepa con un rantolio. La frugo con il calcio del fucile a impulsi, sondando le profondità della veste. 
Niente pistola, niente fucile, niente coltello. 
Azzo' un civile questo mi toglie punti!
Gli ologrammi rosso sangue sulle pareti risplendono nuovamente. 
Alle mie spalle, a sei metri e due ologrammi di distanza, compaiono due nuovi nemici. 
Rotolo a terra, mi volto. Esito, il mirino settato sul torso delle due silhouette immerse nel buio. 
Una raffica mi straccia il braccio sinistro.
Bestemmio, mi getto rasente alla parete più vicina. Coll'avambraccio intatto sventaglio il fucile a impulsi. Sussulta come una bestia ferita, vomitando una gragnola di raggi verso il nemico. 
La prima silhouette falciata al torso scoppia lontano, sbriciolandosi con un glup di piastrine. La seconda striscia a terra, le gambe fracassate. La inchiodo con due colpi secchi alla testa. 
Il braccio ferito stilla sangue sul pavimento nero. Mi accuccio, libero dalla fondina la pistola. 
La poso a terra, pronta all'uso. Poi apro lo zaino, ne estraggo la catena di granate e delicatamente afferro una borsa bianca con una croce ricamata. Arrotolo le bende sul braccio, vi spruzzo una passata di anestetico. Il kevlar della tuta è sbrindellato in lunghe strisce che penzolano inutili. 
Gli ologrammi risplendono ancora, due metri in avanti. Una bassa silhouette compare da destra, solleva il profilo aguzzo di una mitraglietta. Scarico l'intero caricatore della pistola laser nella pancia della minaccia. Zoppico, mi rialzo. Recupero il fucile a impulsi, saccheggio i due nemici. 
Vestono una tuta a strisce bianche e nere. I volti scimmieschi, deformati dalla barba e dall'assenza di chirurgia estetica, sono irrigiditi dal trauma della morte. Un collare puntuto sporge dal collo rigonfio di vene del primo, mentre il secondo esibisce un tatuaggio sul petto villoso. Getto nello zaino i caricatori, poi mi rivolgo al terzo aggressore. 
Da quant'è basso, dev'essere per forza un robot warrior
Il volto di un bambino di dieci anni mi fissa dall'orlo di un casco colorato di blu. Stringe ancora spasmodico la mitraglietta, dal caricatore ormai scarico. Il torso è sventrato da costola a costola dall'impatto della Glock al laser. Gli strappo la medaglietta e controllo l'età, con una certa soddisfazione: dieci anni, esatto. 
Per le baby gang sono un sacco di punti in più. Piccoli, dannati teppisti!
Dopo un quarto d'ora di cammino, il corridoio si biforca. 
A destra gli ologrammi al neon si estendono nell'oscurità, mentre a sinistra il corridoio è nero, qualcuno ha massacrato ologramma dopo ologramma a colpi di mazza. Mi tolgo il guanto destro, sollevo l'indice a tastare l'aria immobile. Un lieve refolo proviene dal corridoio buio. 
Con la forza dell'abitudine ricarico il fucile a impulsi. 
Click, click, click. Mi calo sulla faccia il visore notturno e vado dentro. 

***

Il visore è una maschera dalle fattezze di un insetto sotto amfetamina, il bulbo con visori a infrarossi analizzano il terreno affamati di calore. Ma le mie pupille dilatate non scoprono nulla. E' solo un corridoio deserto, che dopo dieci metri non rivela altro dai cocci rotti sotto gli stivali. Ogni singolo ologramma è distrutto, infranto. 
Deglutisco, la gola secca. Depongo il fucile a terra, frugo nello zaino fino a trovare la borraccia. Inghiotto un sorso di acqua rancida. Sovrappensiero, allungo le dita fino a toccare il muro del corridoio. Le ritraggo di scatto, i polpastrelli in fiamme. La pietra del muro è bollente. A toccarla, sembra che qualcuno vi abbia acceso dietro un gran fuoco. Ma gli infrarossi non rivelano la minima traccia di calore. Traffico con le rotelle, aumento e diminuisco l'intensità dell'affare. Il muro rimane freddo. Eppure... Ah! Al secondo contatto, il guanto brucia come uno zolfanello. La gomma si squaglia, impreco mentre la mia pelle ribolle, arrossata. 
Dopo altri dieci metri di corridoio, mi blocco per una seconda volta. Guardo indietro verso il sottile luccichio all'entrata del tunnel. Confronto le dimensioni del corridoio, tiro una bestemmia. Il corridoio si sta restringendo, quelle maledette pareti infuocate si avvicinano sempre più. Stringo i denti – niente ologrammi, se non altro – e tiro avanti. 
La mia spalla struscia per mezzo secondo sul muro, esalando una lunga, bituminosa striscia di cuoio e kevlar bruciato. Il puzzo mi riempie le narici, mi schizza fino al cervello, stimola i centri del vomito. Barcollo con la lingua annegata nel sapore acre del rigurgito. Incespico in avanti. 
Il corridoio si è a tal punto ristretto che devo posizionarmi di lato, avanzare a passo di gambero. Un braccio col fucile puntato in avanti, il torso posizionato di sghembo, con la schiena contratta. Striscio per altri dieci metri, fino a strofinare il mento sul muro. Urlo, l'odore della pelle bruciata che olezza nel corridoio. Mi ricorda una grigliata coi vicini. Ma non sarò io il porco a finire sotto i ferri. Accelero, striscio ormai senza più ritegno stivali e spalline sul fuoco. Il verde dell'uniforme è picchiettato di cenere, sento un'intera spalla ustionata. Pulsa, le vene esposte sotto la carne fritta, squagliata. Sono meno di trenta centimetri nell'anfratto che continuo a chiamare corridoio. Con un'ultima spinta, disintegro bottoni e giubba per passare. Grido animalesco, quando fuoriesco dal buco. – Sì! Cazzo! Sì! – Getto via frenetico la giubba, i resti in fiamme dell'uniforme. Calpesto sotto gli stivali deformati dal calore il visore. Ho nella guancia schegge di plastica fuse nella pelle, mentre il lobo dell'orecchio è un grumo informe, un tutt'uno con il collo. 
Controllo che il fucile a impulsi sia carico, esamino la piazzola in cui sono finito. 
E' una perfetta circonferenza, all'incrocio di due tunnel, uno davanti e uno dietro. Quello dietro è la sottile rientranza cui sono appena fuggito, quello davanti è invece illuminato con lampade a incandescenza. E' bianco, pulito e asettico. Non scorgo ologrammi e al tatto la parete è liscia, senza grammo di polvere. Sbircio all'entrata del corridoio. Non ho molta scelta. O quello, o la rientranza infuocata. Gambe conserte decido per una pausa. Il mio cervello implora una sosta, ma le mani continuano a muoversi, spinte dall'automatismo dell'addestramento militare. 
Estraggono la pistola laser, la smontano nelle sue diverse parti, dal calcio al caricatore. Puliscono la canna, sgrossano dallo sporco le celle di energia. Intanto rifletto. Posso ancora ricordare il mio nome, John O' Connor. Il lavoro sporco come contractor in Repubblica Centrafricana, il successivo impiego come scorta a un divo metallaro nei Balcani. E l'inferno in Afghanistan. Unità di rinforzo del contingente di pace inglese. L'imboscata di notte, il fuoco degli rpg. L'odore di cordite e terra bruciata. L'abduzione dall'alto. Sono come noi, gli alieni, lo sapete? Hanno una testolina grigia e piccola, bassi come un nanerottolo del circo e (quasi) altrettanto cattivi. E come noi, amano giocare. Noi guardiamo alla tivù i wrestler che se le danno di santa ragione e applaudiamo a ogni colpo. Loro ci rapiscono, ci ficcano dentro un labirinto e ci guardano. Ci guardano giocare. Ammazzarci a vicenda come cani rabbiosi. Non è tanto diverso dall'aizzare i galli l'uno contro l'altro. O dai cari, vecchi scontri nelle arene della Roma imperiale. E ci danno tanti giocattoli con cui giocare. Questa pistola, ad esempio. Lo scatto, il grilletto. Tutto motherfucking uguale a una pistola glock. Ma dentro è tutta diversa. E i raggi che spara vaporizzerebbero la testa di una tigre. Vogliamo poi parlare di questo maledetto dungeon? Ogni stanza, ogni corridoio, ogni ologramma: una trappola. Ne ho incontrati altri, nel labirinto. Ho calpestato lo scheletro calcinato di uno spetznaz con Uzi e coltello. Un narcos bianco di cocaina ha perso in successione una gamba, un braccio e quel poco di cervello sotto il mio fucile a impulsi. Feccia. Ci prendono, ci rapiscono. E sanno che non esistiamo, siamo solo cifre di un tabellone. Soldati, donne e bambini che nessuno vede, nessuno conta. 
Tempo di muoversi. Bevo un sorso dalla borraccia, mi getto nel corridoio bianco. 
E se fosse questa l'uscita? 
Un riflesso sugli occhiali antischegge mi fa voltare. Sussulto, poi salto trenta centimetri in alto. Un laser intravisto con la coda nell'occhio nel riflesso del vetro mi saetta sotto la punta dei piedi. Poi ne scatta un altro, stavolta dall'alto in basso come una falce rossastra. Mi getto pancia a terra, sento che sfiora il casco. Una sottile lamina di kevlar cauterizzato rimbalza sul pavimento. Mi rialzo, scruto ansioso il corridoio. 
Un suono sottile, di cavalletta impazzita preannuncia l'arrivo di un terzo laser. Obliquo, dall'alto a destra dritto in basso a sinistra. Mi getto, protendo il corpo in avanti. Passo per pochi centimetri. Sento l'alluce dello stivale puzzare. Cauterizzato fino alla radice. Atterro sul pavimento, rotolo. Zoppico avanti. Sono tre metri alla fine del tunnel. La melodia infernale scampanella per tutto il corridoio. Mentre zoppico frenetico in avanti, il piede mutilato che striscia sul pavimento, mi volto. Il laser ha formato una griglia, giunge a velocità supersonica. Corro, abbandono il fucile. Esco dal corridoio un secondo prima che la griglia arrivi a destinazione. 
Guardo il fucile a impulsi. E' un colabrodo informe di plastica, metallo, cubetti liquefatti. Singhiozza olio sul pavimento immacolato. Continuo a stringere la pistola con mani che ancora tremano dallo shock mentre cogli occhi frugo il nuovo punto d'arrivo. 

***

E' un'aula conferenze dal pavimento in pietra e tredici file di sedie. Due poltrone ergonomiche sono parcheggiate di fronte a un tavolino con una bottiglia d'acqua e tre bicchieri di plastica. Dietro il palco, uno schermo al plasma trasmette un video, il sonoro disattivato. Zoppico nella stanza. Punto la pistola verso lo schermo, ma non osservo reazioni. La cinepresa del video inquadra a mezzobusto un ometto grigio, giacca e cravatta nere su camicia azzurrognola. Trattengo a stento il grilletto, quando mi accorgo che dal colletto della camicia emerge il collo sottile e segaligno di un alieno. Gli occhietti nerastri senza pupilla mi fissano, sormontati dal frinire di due antenne iridescenti.

- Contractor John O' Connor – Annuncia, sfogliando un cumulo di carte tra le chele. – Trentasette anni, dieci in servizio nell'esercito inglese, nove come mercenario indipendente. Bangladesh, Liberia, Serra Leone, Sicilia, Serbia e Montenegro. Abduction effettuata nell'imboscata a nord dell'Afghanistan, nel corso di un'operazione Search&Destroy. Quarantotto uccisioni nel Labirinto, tre prove del fuoco, diciassette trappole superate con pieno successo. Uso del laser: efficacia all'80%. Uso degli impulsi: efficacia al 93 %. Lieve paranoia da stress di guerra. Nessuna addizione a fumo&alcool. Stato psicofisico: eccellente. In virtù del codice del Labirinto la promuoviamo di livello. Ha conquistato il rango di soldato delle forze speciali nel Sas.  –

Un formidabile mal di testa mi martella il cranio con chiodi incandescenti. Grugnisco, poso la pistola laser sulla sedia più vicina. Mi avvicino allo schermo, ci traffico intorno. Col naso a cinque centimetri dal plasma, socchiudo gli occhi. Fisso l'alieno. Boccheggio, il cervello si contorce a negare il fatto. Quella roba lì non è un alieno. E' un omuncolo di plastica anni novanta. Distinguo ora le chele riciclate da un set di Sharknado. L'ossatura dell'alieno è un vecchio pupazzo di ET camuffato con dello spray. Il baluginio all'angolo dello schermo puzza di ritocco digitale da quattro soldi. L'alieno sembra ritrarsi, a vedermi trafficare così vicino. Avverto il cicaleccio delle telecamere nascoste come una prurigine ai capelli. L'immagine sfarfalla, si esaurisce bruscamente in uno zip terminale. Afferro di nuovo la pistola, tolgo la sicura. Scavalco le sedie, le rovescio a farmi spazio. Lentamente giro su me stesso, la pistola puntata. Non ci sono aperture, né porte né tunnel. Il soffitto è pietra dura, cemento colato in blocchi massicci. Nella pietra delle pareti non scorgo intersezioni. Ho il respiro accelerato, il cuore batte un colpo di più a ogni intuizione. E' vero, a diciotto anni compilai un questionario per l'arruolamento. Pretesi di fare il Sas più di ogni cosa. Ma il Sas non getta vecchi contractor in labirinti gestiti da alieni. Non ti danno armi laser da usare in distopici dungeon da videogioco... Non...
Una sezione della parete slitta all'indietro, scivola su rotaie idrauliche fissate al pavimento. Lo scricchiolio dei meccanismi accompagna lo scintillare dell'olio di macchina. Una coltre di polvere sporca l'ultima fila di sedie. Dall'apertura entrano tre soldati con maschere antigas, giubbotto anti proiettile e fucile a impulsi. Un esoscheletro sperimentale potenzia i muscoli rigonfi sotto l'uniforme nera. Stringono le impugnature, tolgono al sicura. Si posizionano a falange nella sala. 
Dietro, emerge la silhouette slanciata di un uomo sulla cinquantina. Indossa una giacca bianco panna in tono con una cravatta rosa. Il viso sorride, le grinze di un intervento plastico su labbra e guance sono in tensione come cerotti su una ferita. Spolvera una sedia, si accomoda con le gambe incrociate. Un sorriso sul volto finemente abbronzato da lampade solari. 

- Signor John O' Connor! Finalmente! Per un attimo, a guardarla saltare il laser del corridoio bianco, abbiamo temuto il peggio –
Sollevo un sopracciglio. – Lei non è del Sas – 

Scatarra una risata cavallina tanto acuta da far male alle orecchie. Fruga in tasca, estrae una maschera di gomma. Ci ficca dentro la mano, la gonfia fino a riempire con indice e medio i buchi per gli occhi. E' una brutta riproduzione di un alieno. Le zanne in gomma, la pelle grigia, le antenne stroboscopiche. – Intendeva Mister Alieno, vero? L'abduction, come lo chiamiamo. Un piccolo scherzo del nostro settore reclutamento. Le reclute sono motivate, se pensano di trovarsi in un labirinto alieno. O no? – 

- Certo le terrorizzate a morte. Ma questo non è il Sas? – 

- Certo che lo è. Questo labirinto è di proprietà del Sas, ovvero della Società Azionaria per lo Svago. In sintesi. Sas. Siamo una multinazionale in contratto con le principali agenzie per il divertimento internazionale. Abbiamo stretto patti decennali con la Disney, Hasbro, Ea games, Ubisoft e in generale con ogni possibile agenzia per il divertimento, specie elettronico. Siamo altresì al servizio dei principali Social network, Google+ escluso. Non avrà pensato certo che fossimo il Sas al servizio della Regina, vero? Quegli straccioni statali non hanno potere da un pezzo, ormai. Il nostro braccio armato è una milizia privata, sissignore. E ne andiamo maledettamente fieri. – 

- Mai sentito di questa... Società Azionaria per lo Svago. Sas. Cosa implicherebbe il vostro coinvolgimento nel Labirinto? – 

- L'abbiamo creato noi, non l'ha capito? – 

- Avete creato un labirinto con trabocchetti e nemici per... cosa? – 

- Per il reclutamento, ovviamente. I principali stati al mondo ci forniscono liste di mercenari e soldati fuori servizio. Tutti con ottime referenze, tuttavia ormai al di fuori delle normali giurisdizioni. Noi li rapiamo e vi gettiamo qui dentro. Siamo al momento in una lontana contrada asiatica, signor O' Connor. Il Labirinto è ancora in costruzione e prevediamo il suo completamento verso il 2036. Ma si è già rivelato molto, molto efficiente. – 

- Ma non è illegale... – 

- Cosa? Rapire normali cittadini? Se lo stato è d'accordo, e non vedo come potrebbe opporsi, è perfettamente normale. Tutta la nostra attuale milizia ha passato il labirinto e scelto di unirsi alla Sas. – 

- Ma i tizi uccisi... – 

Il manager agita la mano, seccato. – Non li nomini. Spazzatura, nient'altro. Li raccogliamo da carceri e slums in tutto il mondo e li gettiamo in questo tritacarne. Le autopsie che ci procurano sono utili per lo sviluppo delle armi sperimentali che lei già impugna, e con notevole maestria aggiungerei. – 

- Ho ucciso bambini e donne... –

- Un bambino europeo ucciso è un'immane tragedia, concordo con lei. Ma un teppistello delle periferie sudamericane è solo una statistica. Lei ha girato il mondo, no? Ha visto e ucciso “cose”. Non si nasconda dietro queste bugie – 

- Ma gli alieni... – 

- Gliel'ho detto, un utile travestimento. Tutti credono agli omini grigi, no? Non possiamo essere soli a quest'universo, bla bla bla – 

- D'accordo. E se accettassi di entrare nella milizia, cosa comporterebbe questo lavoro? – 

- Le solite cose. Destituire dittatori, torturare blogger, bombardare violatori di copyright e proteggere manager di alto livello. Sono sicuro che si troverà a suo agio. La sua paga sarà il doppio dei contractors, il triplo di un soldato regolare e il quintuplo di una guardia di sicurezza. Allora, cosa ne pensa? – 

Rinfodero la pistola, mi ripulisco dal sudore la fronte. 
Scatto in piedi, il corpo dritto come un fuso. 
La  palma della mano sulla fronte, un saluto militare sincero come non ne facevo da anni. 

- Ai suoi ordini, signore! Dove devo firmare? –

Fonte:
L'immagine in copertina è del disegnatore Kukez, presa dal Tumblr Animate me.