Open Culture, il noto portale che offre
contenuti legalmente scaricabili di filosofi, scrittori e in generale
umanisti, ha un unico difetto, che d'abituale curioso sento molto:
non esiste materiale intermedio tra lettore e autore.
Prendiamo un
filosofo quale Nietzsche. Complicato. Complesso. Indecifrabile,
quasi. Affrontarlo senza il fuoco di supporto di manuali e guide di
chi ne capisce – per forza di studi – più di te, è
indispensabile. Un classico, che sia un tomo di filosofia o un testo
cardine di un genere quale il Signore degli Anelli di Tolkien, non si
può affrontare senza aiuto.
Chi giudica un filosofo dalla sola
lettura dei suoi testi, senza un set di strumenti in grado di
scassinarlo, interpretarlo e analizzarlo è uno sciocco. Finirà per
trovare un'ingenua passione per filosofi che a naso sente “realisti”
o “scientifici” o al contrario per citarli a sproposito, per
trarne aforismi che sente misteriosi e densi di significato. Senza
per altro che questo significato sappia spiegarlo.
The Tolkien Professor, di Corey Olsen sono una serie di lezioni
tenute su Tolkien.
Non hanno il valore d'un saggio critico, né di un
corso professionale. E' tuttavia una confusa, ma appassionante
analisi della poetica di Tolkien, narrata in una serie di podcast che
sono registrazioni delle lezioni dal vivo. Olsen usa un inglese semplice
e lineare, inframezza di battute le sue conversazioni e in generale è
un oratore loquace e piacevole. L'analisi parte dal Silmarillion, per
scendere a Lo hobbit e arrivare infine alla trilogia del Signore
degli Anelli.
Tuttavia, you know, è pur sempre inglese...
Ho pensato perciò in occasione
dell'ultimo film di Jackson di trarre da queste lezioni una serie di
articoli. Tolkien non è un filosofo, almeno non nel senso
convenzionale del termine. E non c'è testo più facile e fluente de Lo hobbit. Nondimeno, penso che un'analisi attenta de Lo hobbit possa
interessare i curiosi. La sfida in questo caso non è comprendere un
romanzo che brilla proprio per la sua facilità d'accesso, ma
piuttosto indagare i meccanismi che ne azionano le diverse
componenti. Scoprire pertanto l'inganno di una semplicità tutt'altro
che semplice.
Ovviamente eventuali errori sono dovuti
al sottoscritto e non al professore.
Non voglio in nessun modo
sostituire eventuali “specialisti” (brutta parola!) della
materia.
La prima precisazione da fare concerne
il diverso punto di vista che intercorre tra Silmarillion e Lo
hobbit. Il Silmarillion, come gli
sventurati che l'hanno letto sanno bene, ha uno stile aulico e
verboso. Al contrario, Lo hobbit presenta uno stile di scrittura
morbido e semplice, adatto alla lettura dei più piccoli senza
risultare lezioso.
Questa differenza di stile in realtà
costituisce una spaccatura non soltanto per diverse esigenze
editoriali, ma riflette il diverso Pov dei personaggi protagonisti.
Coerentemente con gli elfi che lo popolano, il Silmarillion è
narrato dalla prospettiva estetizzante e aliena di un eldar, pertanto
seguendo gli stilemi dell'epica, con abbondanza - ahimè stancante -
di nomi e titoli.
Come lo definisce il professore, è un
"elven document".
Lo hobbit invece possiede un narratore
con prospettive, filosofia e sopratutto linguaggio assolutamente
“hobbit”. Il punto di vista è legato alla creatura “hobbit”,
pertanto a un bipede nano con abitudini e usanze tipiche della
borghesia rurale ottocentesca inglese. Lo stile dunque non può che
diluirsi, eliminando ogni parola difficile in favore di un modo di
scrittura pianeggiante e tranquillo. Tolkien rifiuta di degradare
l'epica del Silmarillion per accontentare i bambini. Al contrario,
muta radicalmente il linguaggio per venire incontro alla prole e al
contempo adeguarsi realisticamente al punto di vista di Bilbo, un
semplice hobbit.
Il Silmarillion, dunque? Un documento
elfico, una ballata epica.
Lo hobbit? Il diario di Bilbo, un
giovane halfling della Contea.
Scompaiono dunque i riferimenti a
Iluvatar e ai Valar che abbondavano nel Silmarillion, preferendo
invece un approccio più terra terra, dove le avventure sono”brutte
cose che fanno arrivare tardi a cena”. Bilbo non è un elfo: non
adora la guerra. Al contrario rimpiange il bacon, l'erba-pipa, il
thè. Non poteva esserci mutamento più radicale.
Questo shift nello stile, che
può sembrare banale, si riflette in una straordinaria attenzione
nell'uso dei nomi. Dall'accozzaglia in apparenza insensata di nomi
elfici dello Silmarillion, i nomi geografici de Lo hobbit sono in
realtà semplicissimi, descrizioni a malapena poetiche del luogo.
Nomi parlanti, un classico espediente
per bambini.
Hobbitopoli perché piena di hobbit, il
Bosco Atro perché nero, “atro” (latinismo). Le Montagne Nebbiose perché nebbiose agli occhi di Bilbo, che non ha mai visto montagne
vere fino a quell'avventura. La Montagna Solitaria perchè
solitaria, il Fiume Fluente, perché fluisce verso
il Lago Lungo, che è per l'appunto lungo. Che nomi del genere
non suonino banali, come lo sono invece la miriade di fantasy celtici pseudo imitatori, va
ancora una volta a merito di Tolkien.
Tanta semplicità perchè Bilbo E' una
creatura semplice, un borghese hobbit della Contea. Di fronte allo
stupore di un mondo fantastico, ne verrà, come il lettore, travolto:
pertanto la città acquatica degli uomini di Dale diventa
Pontelagolungo, perché gli sembra, ingenuamente, un ponte sul lago,
che a sua volta gli sembra lungo. Lago-Lungo. Ponte-Lago-Lungo.
Vogliamo parlare dei nemici? Il supremo
capo dei goblin sotto le Montagne viene appellato come il “Grande
Goblin”. Non si poteva trovare titolo migliore per un popolo così
rozzo.
Eppure, in tanta semplicità, un
lettore attento noterebbe che ogni nome geografico, come ogni nome
proprio è distintamente inglese. Tolkien, da buon purista, depura
stavolta il romanzo da ogni influenza esterna che non sia
schiettamente anglosassone. Dopotutto, se ci si forma linguaggio e
scrittura sui libri dell'infanzia, presentarli depurati dallo
straniero è un passo indispensabile.
Giunti a questo preambolo, il lettore
potrebbe sorridere e constatare che sì, Lo hobbit è per
bambini. E' stucchevole, viziato e...
Fortunatamente, non è così. Pur essendo lettura adatta ai bambini,
Lo hobbit è un'opera organica e perfetta, sia nella struttura
narrativa che nello stile. Ma ancor più nei contenuti. Tolkien era
decisamente a favore delle fiabe cattive, mal disposto verso i
pedagoghi volenterosi di smussare ogni angolo spiacevole della vita.
L'approccio che adotta ne Lo hobbit è
sintomatico di questo pensiero: morte, malattia e tortura compaiono
sì, ma ammorbiditi dalla commedia e, sopratutto, dal
narratore-hobbit. La morte non viene nascosta ma accompagna come
tante altre cose l'avventura di Bilbo, di tanto in tanto
contestualizzata come quello che è: una parte fondamentale della
vita. Siamo lontanissimi dal sonno della ragione dei film disneyani,
dalle lauree in pedagogia trovate nei pacchetti di patatine, dalla
produzione per ragazzi attuale: inesorabilmente tesa a divertire,
divertire e divertire annegando il lettore in un mare di melassa
demente. Tolkien teneva bene a mente come esempio negativo di
quest'attitudine molte delle fiabe “rimaneggiate” in età
vittoriana: noi, nuovi vittoriani, possiamo rivolgerci semplicemente
ai nostri scaffali. Annotava infatti Tolkien sconsolato:
Le fiabe, in tal modo bandite, tagliate fuori da un’arte pienamente adulta, finirebbero per guastarsi; e in effetti, nella misura in cui bandite sono state, si sono anche guastate.
Esaminiamo il primo capitolo de Lo
hobbit.
L'arrivo inaspettato dei nani a casa di
Bilbo è divertente, spassoso: perchè getta il nostro protagonista nel panico. Bilbo vive un terribile incubo, quanto per lui è
una tragedia paragonabile a un incidente automobilistico. Non
possiamo non ridere, a leggere la sua disperazione quando si accorge che orrore! Le torte
sono tutte finite! Non c'è più cibo! Per Bilbo, tuttavia, è una
tragedia autentica. Il narratore ironizza, ma la disperazione del
protagonista non è finta. Bilba sta davvero male, per
l'arrivo dei nani. Aver finito tutte le sue torte davvero lo
terrorizza.
La visita di Gandalf e dei suoi nani
distrugge una vita finora tranquillamente su binari tranquilli
(morti?). Il commento del narratore non è solo ironico, ma ricco di
profonda empatia:
Bilbo corse per il corridoio, arrabbiatissimo, completatamene sconcertato e sconvolto: questo era il peggiore mercoledì di tutta la sua vita!
E' un trauma psicologico. Sono finite
le torte, dopotutto. Anch'io andrei in crisi se terminassero
thè&caffè&tabacco da pipa.
La venuta di Smaug a Erebor e la
successiva distruzione sono un altro esempio dell'uso dell'ironia per
smussare una tragedia da prima pagina.
<< Perchè? >>.<< Perchè è troppo piccola. “la porta è alta un metro e mezzo e ci si può passare in tre per volta” dicono le rune, ma Smaug non poteva infilarsi in una apertura di quella misura, neanche quand'era un giovane drago, e certo non dopo aver divorato tutti quei nani e tutti quegli uomini di Dale >>.
Buffo, no? Si discute delle dimensioni
della porta, quasi fosse il nuovo garage del condominio e nel
mentre, con nonchalance molto
british, Gandalf butta lì l'informazione che sì, Smaug ha compiuto
un genocidio. Ha divorato vivo ogni singolo nano della Montagna, e
non pago, ha bruciato
e divorato ogni singolo abitante di
Dale. Roba da far impallidire la carta dei diritti dell'Umanità.
L'attenzione di Gandalf è tuttavia
concentrata sulla porta, il sanguinoso massacro viene riferito discretamente, come un'informazione risaputa. Morte e distruzione
non vengono nascosti come una cosa vergognosa, ma sottomessi
all'importanza della fiaba.
Come negli antichi racconti far
conoscere i pericoli e le sofferenze della vita al bambino, ma
senza trascurare la cornice: lo stile,
l'ambiente. L'ironia necessaria a trasformare l'omicidio in
fiaba. La descrizione del sornione
Gandalf di Thrain, il padre di Thorin, si colloca in questa scia:
Thrain, dopo aver trovato la mappa cerca di arrivare alla montagna,
ma viene catturato dal Negromante. Con sobrietà, Gandalf racconta
infatti:
<< Tuo padre se ne andò a tentare la sorte con la mappa dopo che tuo nonno fu ucciso, ed ebbe un gran numero di avventure del tipo più spiacevole, ma non arrivò mai vicino alla montagna. Come fosse arrivato lì, non lo so, ma lo trovai prigioniero nelle segrete del Negromante. (...) Cercai di salvare tuo padre, ma era troppo tardi. Inebetito e brancolante, si era ormai dimenticato quasi di tutto, tranne che della mappa e della chiave. >>
Le vicissitudini sgradevoli di Thrain
alludono probabilmente a scontri sanguinosi, fame e privazioni
di ogni genere; dopo la cattura per
mano del Negromante, capiamo che Thrain è stato torturato fino
alla follia e allora abbandonato come
un rifiuto nei sotterranei. Brancolante? Forse è stato mutilato, o
abbandonato a morire d'inedia.
Bilbo Baggins nell'introduzione svolge
inoltre il ruolo fondamentale d'intermediario tra il mondo
fantastico e il lettore. Essendo un
hobbit della Contea, vive dentro un'oasi di (relativa) calma, se confrontato ai regni di Rohan, o allo
stato di continuo assedio di un regno militarista quale Minas Tirith. Insomma, se è vicino al
lettore nel pensiero e negli atteggiamenti, l'intervento dei nani in
tal senso rappresenta l'irrompere dello
sconosciuto, dell'avventura nella tranquilla quotidianità.
Bilbo è il medium per far entrare il
lettore nel Mondo di Mezzo.
La contrapposizione Baggins/Tuc, dove
il Baggins simboleggia casa, tranquillità e pace domestica e il Tuc avventura, pericolo e stupore è già fortemente presente in questo
primo capitolo. Bilbo si definisce e si definirà sempre un Baggins;
ma di tanto in tanto trapelano aspetti Tuc, come scintille sotto le
ceneri.
Come dicevo, la madre di questo hobbit - di Bilbo Baggins, cioè - era la famosa Belladonna Tuc, una delle tre notevoli figlie del Vecchio Tuc, capo degli hobbit che vivevano di là dall'Acqua, cioè oltre il piccolo fiume che scorreva ai piedi della Collina. Si diceva spesso (in altre famiglie) che molto tempo addietro uno degli antenati dei Tuc doveva aver preso in moglie una fata. Naturalmente questo era assurdo, ma certo v'era ancora qualcosa di non tipicamente hobbit in loro, e di tanto in tanto qualche membro del clan Tuc partiva e aveva avventure. Spariva discretamente, e la famiglia metteva tutto a tacere; ma rimaneva il fatto che i Tuc non erano così rispettabili come i Baggins, pur essendo indiscutibilmente più ricchi.
Allora qualcosa che gli veniva dai Tuc si risvegliò in lui, e desiderò di andare a vedere le grandi montagne, udire i pini e le cascate, esplorare le grotte e impugnare la spada al posto del bastone da passeggio. (...) Improvvisamente nel bosco di là dall'Acqua palpitò una fiamma - probabilmente qualcuno che accendeva un fuoco di legna - ed egli pensò a draghi predatori che venivano a installarsi sulla sua quieta Collina e ad appiccare il fuoco dappertutto. Rabbrividì: e in men che non si dica era tornato ad essere il posato signor Baggins di Casa Baggins, Vicolo Cieco, Sottocolle.
Ditemi cosa volete che faccia, e io farò del mio meglio, anche se dovessi andare a piedi da qui al più Lontano Oriente e combattere i selvaggi Draghi Mannari nell'Ultimo Deserto. Un mio pro-pro-pro-prozio, Ruggitoro Tuc, una volta...
<< In primo luogo mi piacerebbe saperne un po' di più >> disse questi, sentendosi confuso e interiormente un po' scosso, ma ancora Tuccamente deciso ad andare avanti con quella faccenda.<< Voglio dire riguardo all'oro e al drago e compagnia bella, e come ci è arrivato e a chi appartiene, e così via e così via >>.
L'unica decisione che prese fu di non disturbarsi ad alzarsi molto presto per preparare la dannata colazione per tutti gli altri. Il suo lato Tuc si stava rapidamente squagliando, e Bilbo non era più tanto sicuro che al mattino dopo sarebbe partito per un viaggio, di qualsiasi tipo fosse.
Bilbo parte cento per cento Baggins, ma
col passare del tempo diventa sempre più Tuc, man mano che
l'approccio Baggins rivela la sua inutilità alle prese con trappole
e mostri. E' interessante che
questa contrapposizione interiore venga
dal buon Tolkien trasposta in un legame genetico, di sangue; dalla
mescolanza dei diversi antenati. Inoltre Tolkien non s'accontenta di
un semplice capovolgimento, del tipo Baggins= male
a Tuc= bene. Al contrario Bilbo per l'intera avventura continuerà
realisticamente a oscillare tra i due poli, passando da nostalgie
Baggins a slanci di eroismo Tuc. E presso la Montagna, al cospetto
di Smaug, continuerà a definirsi “Baggins”. Dall'avventura
tornerà arricchito, trasformato. Ma senza gettar via la sua eredità.
Il conflitto Baggins/Tuc è solo una
frazione del conflitto psicologico di Bilbo.
L'identità del protagonista continua a
cambiare, specie per effetto di eventi esterni. Già Gandalf,
marchiando la sua porta con un segno magico scatena l'arrivo dei nani
e le prime, timide trasformazioni. In seguito l'attributo di
scassinatore (burglar), fornito dall'alto da Gandalf, quasi “per scherzo”
diventa per Bilbo una questione d'onore.
Bilbo cambia, diventa una personalità
marcata lontana dal pigro cinquantenne che fuma anelli di erba-pipa
in cortile. Durante questi primi tre capitoli la trasformazione si
completa dopo l'incontro con i tre troll (o gli uomini neri, in
alcune traduzioni).
Sia per i nani che per Bilbo,
l'incontro è un disastro, un completo fallimento.
E' Gandalf che interviene a salvare la
compagnia. Per Bilbo l'incontro invece è un successo. Se
oggettivamente ha combinato poco, per quanto lo riguarda sente
d'essere utile, non un peso.
Conferma d'essere scassinatore rubando
qualcosa. E' già qualcosa. Da qui all'avventurarsi fino alla
Montagna Solitaria, il piccolo hobbit avrà modo di maturare
ancora...
Bilbo lo sapeva. Aveva letto molte cose utili che personalmente non aveva mai visto o fatto. Era allarmatissimo e disgustato; avrebbe desiderato esser lontano mille miglia da lì, eppure... eppure c'era qualcosa che gli impediva di tornare subito da Thorin e Compagnia a mani vuote (…) Berto e Maso si diressero verso il barile. Guglielmo stava scolando un altro boccale. Allora Bilbo raccolse tutto il suo coraggio e mise la manina nell'enorme tasca di Guglielmo. C'era dentro un borsellino, grande quanto una borsa, per Bilbo. << Eccoci qua! >> pensò, appassionandosi al suo nuovo lavoro mentre estraeva con somma cautela il borsellino. << Questo sì che è un buon inizio! >>.
Nel prossimo episodio analizzeremo gli
elfi di Granburrone/Rivendell in confronto a quelli del Silmarillion.
E passeremo ad analizzare il vero turning point per la saga
tolkieniana: Bilbo che ritrova l'unico anello. Una scena, non a caso, tra le migliori
nell'altrimenti mediocre nuova trilogia di Peter Jackson.
4 commenti:
Complimenti per l'idea del post!
Lo hobbit è stato uno dei libri che ho maggiormente amato in gioventù.
Dopo averlo letto qualcosa cambiò in me, li altri libri non mi bastavano più...
Grazie! :-D
"Dopo averlo letto qualcosa cambiò in me, li altri libri non mi bastavano più..."
Ehh, conosco quella sensazione, della serie "Ne voglio ancora"
Spero questa volta blogspot non mi dia problemi perché ci tengo a dirti che trovo questa tua iniziativa bellissima e che la seguirò con molto piacere :D
Grazie Hendioke e benvenuto! Come vedi il commento è arrivato a destinazione! ^^ Buona lettura... Dai anche un'occhiata alle lezioni direttamente in inglese perché meritano. Se ti va pubblicizza la serie... Le lezioni dedicate a Lo hobbit sono in tutto quattro, per cui sono a buon punto, modestamente :-D
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