venerdì 2 settembre 2022

Il Signore della Nostalgia. Amazon non è il primo drago che sfrutta Tolkien

Un anello disegnato con pochi, sbrigativi, tratti di CGI; una voce di sottofondo degna di un film horror; una carrellata di immagini sfocate, intervallate dall'annuncio roboante che si tratta della trilogia tratta “dal libro più importante di tutti i tempi”. E poi il faccione rubicondo di un regista noto per i film splatter, a suo agio in una terra esotica e niente affatto british quale la Nuova Zelanda. E infine le voci che corrono sui forum, che mormorano preoccupate di importanti personaggi tagliati, di scene action e americanate, di triangoli amorosi, di elfi femmina e donne umane che affettano orchi.
Non si tratta delle polemiche che, da diversi mesi, rincorrono la nuova produzione televisiva The Rings of Power, nuovo giocattolo del colosso Amazon, ma delle reazioni che accompagnarono il debutto della trilogia a inizio duemila. La produzione veniva accusata di aver abusato della tecnologia, di aver sostituito alla sincerità dei cartoni di Ralph Bakshi e dell'artigianato di Willow CGI senza cuore; di aver trasformato la passiva Arwen in una principessa guerriera; di aver trasformato il personaggio di Eowyn in un'attrazione amorosa per Aragorn; di aver trasformato un delicato capolavoro letterario in un parco dei divertimenti, rigonfio di scene action e horror. Giungendo al peccato originale, mai perdonato dai tolkieniani: aver eliminato il personaggio di Tom Bombadil, sacrificato sull'altare di Hollywood.
Il Guardian definì il film “un delirio wagneriano-arturiano”, lamentando l'espressione vacua di Elijah Wood, l'assenza di eventi significativi, la trama piatta, l'assenza di humour, i dialoghi legnosi. Il critico Peter Bradshaw definì addirittura la mitologia del film “rappresa e indigeribile”, marchiandola come “una fantasia escapista”. D'altronde non erano passati che pochi mesi dall'attentato dell'11 settembre 2001; fu un Natale inquieto.

La prima foto ufficiale del Signore degli Anelli rilasciata alla stampa (11 ottobre 1999)

domenica 9 gennaio 2022

Karl Edward Wagner: l'anello mancante tra il pulp e il fantasy moderno. Alla riscoperta di un Conan "rimosso"

Il dilemma della bancarella, nel caso dei libri fantasy, rimarrà sempre l'ampio bacino di scrittori e opere accumulatosi coi paperback dagli anni Settanta in poi: vi sono i “soliti” nomi sui quali fare affidamento - da Robert E. Howard, a Clark Ashton Smith, all'inossidabile multiverso di edizioni di Moorcock – ma al di là di ciò c'è un vasto marasma di autori sconosciuti.

Anche nel caso di autori noti, come Moorcock, la quantità di diverse edizioni rende impossibile tracciare una linea netta: qual è il senso ad esempio di avere, come nel mio caso, il secondo libro della saga di Corum o il terzo della TEA di Elric? Le ristampe della Oscar Mondadori hanno parzialmente risolto il problema, ma il formato nello stile di un cofanetto le rende impossibili da leggere negli intervalli di lavoro. Siamo sinceri: non ho il tempo di dedicare un pomeriggio o una sera alla lettura delle cronache di Corum, come se dovessi leggere un testo accademico per una mostra o un manuale per un concorso. Il fantasy lo voglio leggere mentre sono in treno, mentre attendo l'autobus, mentre cucino il pranzo. 

Karl Edward Wagner e un "amused" Ramsey Campbell negli anni Settanta

Ma al di là di ciò c'è un vasto bacino di opere oscure dei quali non conosci mai la qualità. Ignoranza? Indubbiamente. È il caso dello scrittore Karl Edward Wagner che vado riscoprendo proprio in queste settimane: un autore, come tanti altri, che vedevo sempre passare tra i paperback delle bancarelle e dell'usato, ma senza prestarvi grande attenzione. D'altronde a livello di copertine e titoli la Sword&Sorcery è tanto abile a mascherare le schifezze, quanto a nascondere i gioielli. E Karl Edward Wagner appartiene, senza ombra di dubbio, alla seconda categoria: è un grande del fantasy e un grande dello Sword&Sorcery. Un autore non solo bravo, ma stilisticamente superbo: la padronanza del tema si accompagna alla ricerca stilistica. E non è poco: lo stesso Moorcock, sotto questa prospettive, rimane un autore molto pulp, quasi “rozzo”.

venerdì 15 maggio 2020

"Impesto anco te!" Pandemonium. Un Neo-Decameron rivisitato per il 21° secolo


Come in alto, così in basso.
Se il Pantheon è la casa di tutti gli dei, il Pandemonium è quella di tutti demoni dell'inferno; e in questi mesi di quarantena c'è chi ha vissuto la propria abitazione come un Olimpo e chi come un Pandemonio.
Il termine, coniato da Milton per il “Paradiso Perduto”, andava a designare l'high palace di Satana e nello specifico la Camera del Consiglio dei satanassi.
Ma il Pandemonium non è obbligatoriamente un termine negativo: dopotutto lo stesso Milton descrive con simpatia lo spirito di ribellione dell'angelo caduto; e col tempo il pandemonio è divenuto un raggruppamento di persone rumoroso e incontrollabile.
Un assembramento? Pandemia o Pandemonium?
Di questi tempi, considerando l'oscillare dei giornali dal definire i cittadini “angioletti” a marchiarli come “diavoli” che fanno “confusione” e “assembramenti” il termine Pandemonium è singolarmente utile.
Ma dopotutto, passando alla prospettiva di un italiano, posto a fronte delle linee Inail e dell'ennesimo decreto, sembra che il Pandemonio risieda laggiù in alto, tra le trovate infernali della burocrazia romana.
Questa mescolanza tra fantasia e realtà, tra satira e mondo reale pervade l'antologia Pandemonium. Neo Decameron: e diventa impossibile, durante la lettura, evitare il confronto con le proprie esperienze.
Una recensione a freddo richiederebbe che un'antologia quale Pandemonium sia recensita tra mesi se non anni; ma la sua natura eccezionale risiede proprio nell'essere uno spin off della realtà, una fuoriuscita narrativa prodotta dai mesi di isolamento.

mercoledì 4 marzo 2020

"Queho", l'uomo nero dell'Ovest. Christian Sartirana svela l'orrido volto del West


La pulp(osa) cover
I primi anni del Novecento segnano la fine dell'eterna frontiera del West, di quel mondo popolato di cowboy e ranch, sceriffi e saloon, pellerossa e giubbe blu. Quello spazio un tempo così gigantesco rimpicciolisce nei recinti di filo spinato dei mandriani, viene divorato dalle traversine dei treni, di un progresso urbano e tecnologico che non conosce sosta.
Il sogno allora imputridisce, svela un orrido volto nascosto di violenze e massacri, truffe e sfruttamento. In questo mondo al calare della notte si svolge il romanzo breve di “Queho”, autoprodotto dallo scrittore Christian Sartirana, già recensito per quel gioiello horror di “Ipnagogica”.

La piccola cittadina di White Crow, sulle sponde del Colorado, è solo in apparenza tranquilla.
In realtà, al di sotto di una patina di normalità, si agitano diverse minacce.
Un gigante indiano - “Queho” - terrorizza i vicini paesi con uccisioni e violenze; secondo i racconti, è un gigante di due metri con una doppia fila di denti e una pellaccia inghiotti-piombo.
Ma queste storie, raccontate dalla prosperosa proprietaria del saloon, Janet Purcell, interessano poco all'allevatore Leonard Cunningham. L'uomo infatti da tempo vede i propri amati cavalli morire uno dietro l'altro per una misteriosa pestilenza: una muffa verdastra che li corrode fino a lasciarne un cadavere putrescente. Una malattia che reputa inquietante, ma della quale non immagina le (fantascientifiche) conseguenze...

giovedì 26 dicembre 2019

Tenoch, di Andrea Berneschi. Un Ulisse azteco contro gli dei di Lovecraft


Megalitiche piramidi innalzate al cielo.
Cuori pulsanti strappati dai toraci di schiavi urlanti, offerti in dono a un sole del colore del sangue.
Giungle profonde capaci di mascherare intere capitali, intere civiltà cresciute a forza di carne umana e coraggio in battaglia.
È lo scenario dipinto con toni sanguigni, ma scientificamente accurati da Andrea Berneschi con “Tenoch, maledetto dagli dei”.

Lo scenario è quello della civiltà azteca e dei popoli precolombiani nel XV secolo, prima dell'arrivo dei conquistadores. Berneschi tratteggia una civiltà azteca credibile e storicamente fondata, mescolando la saggistica alla lezione dell'Azteco di Gary Jennings. La tecnologia di questa civiltà azteca, in perenne guerra contro i popoli barbari per catturare schiavi e sfogare le faide interne, è quella dell'età della pietra, sebbene con la novità di una magia realmente funzionante. Il pantheon azteco qui esiste realmente e non si fa problemi a intervenire nelle vite dei suoi sudditi, dando consigli, poteri o maledizioni. E accanto alla sete di sangue degli dei “normali”, non possono mancare entità decisamente più oscure che potremmo definire lovecraftiane.

Il protagonista di questo mondo di guerrieri e maghi, tuttavia, è un aspirante mercante, un liberista ante litteram: Tenoch infatti proviene dal ceto di commercianti. Giovane capace all'occorrenza di combattere con ardore, vive solo per esplorare e stipulare affari, sfruttando la propria intelligenza per nuove operazioni commerciali l'una più ingegnosa dell'altra. È l'archetipo del mercante operoso e instancabile, contrapposto alla vanità dei soldati e alla pigrizia del clero. Tenoch però non è interessato solo a guadagnare, perché in realtà è un uomo curioso, continuamente proteso a scoprire come funzioni il mondo. In tal senso comprende in sé stesso il carattere tanto dell'esploratore/scienziato quanto del mercante. Alessandro Iascy, nell'introduzione, lo paragonava assai felicemente a Ulisse dell'Odissea.


venerdì 20 dicembre 2019

Giorgio Smojver o come si scrive un fantasy classico. Quando Jack London incontra Tolkien


Un uomo e il suo anziano padre, in fuga da una terra devastata dalla guerra, giungono in una landa boscosa. Qui costruiscono una casa, si dedicano all'arte di cui sono maestri: la caccia. Il figlio prende in sposa una donna sola sopravvissuta di una famiglia di esuli, d'etnia cimbra.
Il Padre, la Madre e il Nonno: a cui presto s'aggiungono la bambina e il bambino.
Sono cacciatori, ma eruditi: leggono, scrivono, si tramandano le canzoni e i ricordi della loro gente.
Il Nonno, prima di morire, racconta alla bambina degli Elfi e del mare di Iperborea; il fratello del villaggio dove vendono le pellicce e di Ker Lyonis, la grande città di marmo bianco.
Visioni fantastiche, interrotte da quel sangue, da quella violenza da cui erano fuggiti.
Sono uomini-lupo, gli Ulfhednar: razziatori e assassini, più animali degli animali.
La bambina sopravvive a stento e, allevata dai lupi della Foresta Nera, diventa la guerriera Valawyne...

Helmor è un giovane, ma inquieto cacciatore cresciuto con il nonno.
Le lezioni di spada si alternano ai racconti del regno di Fynias, dominato dagli atlantidei, dove un tempo dimorava il padre.
Un'eredità, una leggenda a cui Helmor va alla ricerca, accodandosi a un gruppo di ragazzi e giovanotti in cerca di una via d'uscita da una breve e ripetitiva vita di caccia e agricoltura.
Ma il viaggio inizia male, prosegue peggio e finisce malissimo quando il gruppo, tradito dalla civiltà che tanto cercava, viene trasformato negli stessi Ulfhednar che avevano massacrato la famiglia di Valawyne. Tutti, tranne Helmor: qualcosa, nel giovane, si è ribellato...

Il suo destino si lega così alla giovane guerriera in un'Europa alto-medievale arcaica e brutale, dove l'eredità del vecchio mondo si mescola con le pulsioni e i flussi di uno nuovo, che avanza inesorabile...

venerdì 13 settembre 2019

La scure e i sepolcri. L'Axe & Sorcery sporco, ma elegante di Alessandro Forlani


Quand'ero bambino i miei genitori mi portavano spesso in cimitero: dapprima dalle fioraie decrepite all'ingresso, in seguito salutando quel golem del guardiano e infine presso una o più tombe di lontani parenti, a piantar fiori e biascicare preghiere.
Ricordo con grande fascino il cimitero e tutt'ora, se ho modo di visitarne uno, durante un viaggio, mi ci reco volentieri.
La stratificazione di tombe e cenotafi, di edicole e lapidi, esprime meglio di tanti libri lo scorrere inevitabile del tempo e la (vana) lotta di conservare la memoria.
Dapprima ingiallisce la foto, poi scompare la dedica, infine è il nome a sbiadire via, prima di scomparire definitivamente, inghiottito dall'iniziale di un nome illeggibile, financo all'ombra di uno stemma araldico.
Concludendo con le tombe dove solo una croce di legno marcisce nella terra dei morti, prima di trasformarsi in uno spiazzo erboso, delimitato da pietre seppellite dal verde.
Ho sempre compatito chi rifiuta di visitare i cimiteri, così come chi frequenta quelli americani, con quell'egualitaria e deprimente schiera di croci bianche senza passato.
Non voglio negare che il cimitero sia un luogo doloroso, ma l'ho sempre considerato espressione della storia di una civiltà; di una nazione, di un popolo, di una città.
Dopotutto, a inizio ottocento, Ugo Foscolo dei Sepolcri osservava il rapporto sano e razionale degli anglosassoni con i propri morti, lontano dall'adorazione morbosa dell'italiano fermo al medioevo.
Affermazione, certo, discutibile e patriottica, volta a convincere un popolo assai poco “popolo” a sacrificare quanti più figli alla patria, senza piangerli troppo, senza vederci fosco(lo).
Tuttavia la contrapposizione dipinta da Foscolo era quasi fantastica, nella sua estremizzazione; da un lato i cimiteri inglesi, ariosi e lontani dal nucleo urbano; dall'altro quelli italiani, portatori di morbi e sporcizia, incastonati nel cuore della città, persino inseriti quali lapidi nel pavimento delle cattedrali. Il cimitero era qui presente come un ammasso di ossa e teschi, uno strato dopo l'altro.
Una visione gotica e come tale, per noi amanti del fantasy, irresistibile.

venerdì 30 agosto 2019

"Scourge of Fate" Quando il protagonista è il Black Knight. Impersonare un villain



Vanik era solo un neonato sporco di sangue uterino quando suo padre cercò di sbattergli la testa contro il ghiaccio della capanna.
Ma Vanik si rivelò protetto dagli dei, perchè un demone comparve dal nulla, decapitando il padre infanticida con un singolo guizzo d'artiglio.
Quando la tribù barbara venne assalita dai lupi, Vanik non venne divorato, ma fu accolto nel loro branco e per due anni condivise carne e gloria con questi nobili animali.
Leggende, voci, racconti mormorati attorno al fuoco. Vanik non se ne cura, perché il suo sguardo è rivolto al futuro, divorato da un'eterna ambizione.
Nato in una tribù di barbari adoratori del Caos, il bambino è ora divenuto un condottiero, un flagello delle terre civilizzate. Un pellegrino nero, come ama definirsi, alla continua ricerca di potere e gloria. Mentre i suoi compagni in armi consacrano la propria vita a seguire un singolo dio del Caos, Vanik preferisce seguire la via del Caos Indiviso: sottrarre favori e attenzioni da tutte e quattro le divinità del pantheon, ma senza diventare una loro infame marionetta.
C'è un solo dio a cui Vanik vuole votarsi: Archaon il Prescelto Eterno, Archaon il Re dei Tre Occhi, Archaon il Rasoio del Mondo. Un dio che era un tempo un uomo, prima che la sua ambizione lo trasformasse nell'emblema stesso del Caos. E tra le schiere di Archaon, Vanik vuole diventare un cavaliere della Varanguard, la guardia personale di Archaon. Le truppe scelte tra le truppe scelte, la creme de la creme della cavalleria caotica.
Ma proprio per venire ammesso nella prestigiosa cerchia, Vanik dovrà compiere un'impossibile missione...

sabato 24 agosto 2019

Go east, young man! Cronache di viaggio: Praga-Bratislava-Vienna


Quando si scrive una frase, è la maiuscola dell'iniziale a conferire forza, vigore, carattere.
L'inizio influenza l'intero periodo, lo determina, lo plasma: tutte le altre parole gli rimangono subordinate. Questo vale all'identico modo per la storia dei popoli o per le relazioni tra gli individui. Come annota il filosofo Alain de Benoist, “Dopo, ci si accontenta di sfruttare, con sempre minor forza, quel che costituiva questo cominciamento”. Un ragionamento che funziona particolarmente bene quando applicato alla storia delle rivoluzioni: basti pensare alla Francia con il 1789; agli Stati Uniti con il 1776; e così via. Voler rivivere l'evento storico, l'emozione di questo primo momento porta a esiti tragici, grotteschi: all'arroganza degli ex sessantottini, alle milizie libertarie negli States, al culto di un passato ormai passato. Al contrario, nella storia, così come nella vita, bisognerebbe re-iniziare senza voler recuperare a ogni costo il sentimento della prima volta.
L'inizio conta; nient'altro.

E da quale pulpito la predica, considerando come proprio io ci sia cascato qualche settimana fa, quando mi sono recato in Europa centro-orientale. Io e la mia fiancee volevamo da tanto fare un viaggio visitando tre città della Mitteleuropa con i biglietti dell'Interflix
E non appena il pensiero è volato alle lande del centro-est Europa, un nome mi è balzato alle labbra. Praga! Volevo assolutamente tornare a Praga. Oramai erano passati cinque anni da quando mi ero recato nella bella capitale della Repubblica Ceca; e nonostante fossero stati pochi giorni, mi era rimasta indelebilmente impressa nel cuore
Eppure qui ho commesso l'errore che lamentavo: voler cercare di rivivere la sensazione dell'inizio, invece che ricercare qualcosa di nuovo. Così nella realtà – mentre camminavo mano nella mano con la mia dolce metà tra le strade acciottolate di Praga – continuavo a cercare i segni di quella città vissuta ormai cinque anni orsono. Senza trovarli. Volevo respirare l'atmosfera del primo viaggio, ma presto mi ritrovai cianotico. 
Un'altra città sul tracciato mi destò simili sentimenti: Vienna. Non l'avevo mai visitata, ma dopo quasi due anni a studiare un archivio di un italiano residente a Vienna – Filippo Zamboni – tra il 1875 e il 1914, avevo una chiara immagine della città. Sapevo dei suoi caffè, dei suoi ristoranti, dei suoi tram, dei suoi giardini: solo però dalla peculiare prospettiva di un secolo prima. Pure qui volevo rivivere un'atmosfera che percepivo aver già vissuto... Ma stavolta nelle carte dell'archivio del Civico Museo di Storia Patria. Non è la prima volta che rifletto come studiare un archivio sia un'esperienza simile a quella del viaggio, con l'eccezione che attraversi il tempo invece dello spazio. La mia Vienna mentale in ogni caso non corrispondeva alla Vienna reale e per quanto me lo aspettassi... Well, that was a disappointment.
E in tutto questo, io e la mia compagna avevamo scelto una stazione intermedia, che ci lasciava incerti: Bratislava, in Slovacchia. Come sempre, non avendo aspettative su questa piccola capitale dell'orgoglioso popolo slovacco, siamo rimasti piacevolmente sorpresi.

Che sia Trieste o Bratislava, non si sfugge a Maria Teresa d'Austria (giardini presidenziali)